Ottocento - Filosofia

John Stuart Mill: felicità e logica

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Il pensiero di John Stuart Mill prende le mosse da una sofferta reazione all’educazione familiare che il padre James volle improntata ai principi dell’utilitarismo di Bentham. In contrasto con i rigidi precetti della pedagogia paterna, il giovane Mill comprende che il carattere individuale non è modellato esclusivamente dall’ambiente e dalle circostanze esterne, ma può essere formato attraverso l’educazione interiore e l’autonoma coltivazione dei sentimenti. Nel conseguente ripensamento della dottrina benthamiana, Mill oppone al principio univoco dell’utile il nuovo criterio della “multilateralità”, che gli permette di accogliere gli apporti del pensiero romantico e anti-illuministico per l’elaborazione di un’adeguata teoria politica e sociale. La logica che ne fornisce il metodo e ne assicura una valida fondazione scientifica è costruita sul corretto rapporto tra l’inferenza di nuove verità ricavate dall’osservazione di fatti paticolari e la loro legittimazione deduttiva a partire da leggi e principi generali. È questo il terreno neutrale che permette di ricavare, secondo Mill, quei principi intermedi delle scienze morali che costituiscono la base del suo “eclettismo pratico” e della costruzione teorica di una scienza dell’uomo individuale e in società empiricamente valida e rigorosamente fondata.

Vastità di interessi

John Stuart Mill è stato frequentemente considerato il più influente pensatore britannico del secolo XIX. Già pochi giorni dopo la sua morte Henry Sidgwick scriveva che Mill “dal 1860-1865 all’incirca dominò l’Inghilterra nel campo del pensiero” e l’ Enciclopedia Britannica gli riconosce fama “duratura” come logico e filosofo morale. Un commentatore recente si è spinto anche oltre, dichiarando che “Mill fu il maggiore filosofo britannico del secolo XIX”. Uno dei motivi di questi giudizi va forse rintracciato nell’ampiezza non comune dei suoi interessi. Il suo pensiero ha effettivamente spaziato in campi diversi, dalla logica alla teoria della conoscenza, dall’economia alle scienze politiche e sociali, dall’etica alla filosofia della mente e della religione, per non parlare del suo impegno nelle discussioni e negli affari politici correnti. Che tale arco fosse così vasto è dovuto primariamente all’esigenza fortemente avvertita di assicurare alle proprie opinioni politiche e sociali un adeguato e solido fondamento epistemologico.

La crisi mentale

A sua volta, questa ricerca del fondamento trova le proprie radici in quella che egli stesso definisce nell’ Autobiografia la sua giovanile “crisi mentale” il periodo di grande turbamento interiore e di profonda trasformazione delle proprie convinzioni che egli attraversa poco più che ventenne nell’inverno tra il 1826 e il 1827. L’educazione rigida e inflessibile del padre James, un convinto fautore del modello lancasteriano sostenuto attivamente dal circolo benthamita, lo conduce ad accettare i dogmi dell’utilitarismo e del radicalismo filosofico, la teoria politica e sociale ispirata da Bentham e della quale il padre è un ardente propugnatore. Per alcuni anni anche il giovane Mill, accolto da Bentham come suo segretario, identifica il proprio “scopo nella vita” con “l’idea di essere un riformatore del mondo” (Autobiography, 1873, p. 137) – la “produzione” della “maggiore felicità possibile” è “il solo scopo adatto a tutti i pensieri e le azioni umane”, poiché, “di fatto”, esse sono governate unicamente dal “piacere” e dal “dolore”, in “qualunque circostanza” si trovi l’individuo, ne sia o non ne sia “consapevole” (Remarks on Bentham’s Philosophy, 1833, p. 135). Ma il rendersi conto che l’operare per il bene dell’umanità non lo rende in nulla più felice lo getta in un profondo sconforto. La massima utilitaristica fondata sull’associazione dell’idea della propria felicità con quella della felicità dell’intero genere umano non resiste alla “forza dissolvente dell’analisi” e, com’egli scrive, “sapere che un sentimento mi avrebbe reso felice se lo avessi sentito, non mi faceva sentire quel sentimento” (Autobiography, cit., p. 143).

La risoluzione della crisi è determinata, in Mill, dalla consapevolezza di non essere, come sostengono le teorie del padre, uno “schiavo impotente delle circostanze”, ma di avere autonomamente, per quanto le circostanze agiscano sulla formazione del carattere, “un potere effettivo” di “modificare” le proprie “abitudini” e le proprie “capacità di volere” (ivi, p. 176). E più tardi, nella Logica, egli scriverà che “noi siamo in grado di formare il nostro carattere, se lo vogliamo, tanto quanto gli altri”, attraverso l’educazione e il disciplinamento, “sono in grado di formarlo per noi”. Il fatto che il nostro carattere sia formato “per noi”, come sostengono utilitaristi e owenisti, non deve essere giudicato incompatibile con il fatto che sia formato anche “da noi”. Questa nuova consapevolezza modifica radicalmente le opinioni che Mill ha fatto proprie negli anni della sua formazione utilitaristica (System of Logic, 1843, p. 840).

La coltivazione dei sentimenti

La lettura di un libro di memorie in cui si racconta della morte del padre provoca a Mill una grande emozione e gli fa scoprire l’importanza della coltivazione dei sentimenti (cultivation of feelings) per l’autonoma formazione del proprio carattere. È nella cura di sé (self-cultivation) che egli riconosce l’elemento decisivo della formazione della personalità. Mill si apre così alla lettura della poesia, di Wordsworth in particolare, e negli autori romantici, Goethe e soprattutto Coleridge, scopre le radici teoriche per il superamento della limitatezza e dell’unilateralità della dottrina utilitaristica. Spesso si è voluto insistere su un supposto ritorno di Mill maturo alle giovanili posizioni utilitaristiche, ma la trasformazione delle opinioni prodotta dalla crisi mentale era stata profonda e duratura e soprattutto ne aveva modificato le convinzioni teoriche in maniera radicale e decisiva. La crisi mentale costituisce infatti l’episodio attorno a cui è imperniata tutta la sua Autobiografia, scritta nel timore che la consunzione incipiente, contratta dal padre, gli impedisca di terminare le opere attraverso cui vorrebbe esprimere compiutamente le motivazioni e le finalità del suo impegno intellettuale e sociale.

Ispirato da Wordsworth, Mill scrive un importante saggio, spesso ignorato, sulla poesia e la funzione del poeta (What is Poetry, 1833). A suo giudizio, la poesia ha una funzione fondamentale nella coltivazione dei sentimenti e nella formazione di associazioni di idee indissolubili e capaci di agire sulla volontà. Non basta conoscere la verità perché essa riesca a determinare il volere: sapere non è fare, se sapere non è sentire; e se certe verità hanno mai la possibilità di muovere all’azione, ciò è dovuto soprattutto all’opera del poeta. Come è stato osservato, egli considera la trattazione della mente del poeta come “un lavoro preliminare” (R. D. Cumming, Mill’s History of His Ideas, in “Journal of the History of Ideas”, n. 25, 1964) per la costruzione di una vera e propria “scienza della formazione del carattere” – la vagheggiata “etologia,” un progetto costantemente perseguito per l’intero corso della sua vita e tuttavia mai realizzato.

La multilateralità

Uno dei cardini principali della “trasformazione” prodotta dalla crisi “nelle opinioni e nel carattere” di Mill è costituito dal principio della multilateralità (many-sidedness) che egli ravvisa nell’“espediente (device) di Goethe” e nelle massime di Coleridge sulle “mezze verità” (Autobiography, cit., p. 137 e p. 171). L’applicazione di questo principio lo porta a considerare tutti i punti di vista per trovare quella parte di verità che è presente in modi di pensare diversi e perfino incompatibili tra loro. Ciò significa concretamente per lui superare la “visione incompleta” (half-view) dei problemi e l’“unilateralità” che ora riesce a scorgere nel pensiero di Bentham.

Ma per dare buoni frutti, “lo studio delle idee degli altri” (Newspaper Writings, 1831-1834, pp. 471-472) deve fondarsi sullo “studio scientifico della mente umana”. La trasformazione delle opinioni e dei “modi di pensare” esige, per Mill, un sicuro fondamento teorico e “l’unico arbitro comune a cui tutti possono appellarsi” per superare la frammentazione delle opinioni provocata dall’unilateralità dei sistemi e favorire la capacità di comprensione reciproca di punti di vista diversi e apparentemente inconciliabili è, a suo giudizio, la “filosofia della mente”, ovvero, più in generale e per usare i suoi stessi termini, una “metafisica” scientificamente fondata: “È principalmente attraverso lo studio della metafisica che gli uomini possono infatti essere portati a comprendere e ad ammettere, nella pratica, che sentimenti di cui essi stessi sono incapaci sono ciò nonostante sentimenti legittimi; e a correggere le loro vedute parziali per mezzo delle vedute parziali di altre persone” (Smart’s Outline of Sematology, 1832, pp. 425-427).

Il problema del metodo e la logica

Il superamento dell’unilateralità non può però condurre a un eclettismo esagerato e a un eccessivo concordismo. La multilateralità non può restare priva di fondamento ed essere ricercata per “puro compromesso”, ma deve essere raggiunta “in virtù di una dottrina più profonda”, capace di comprendere tutti gli elementi di verità presenti nelle diverse opinioni solitamente contrapposte in modo assolutamente sterile e unilaterale (Diary, 1834, p. 644). Il problema diventa così fondamentalmente, per Mill, un problema di metodo e dalla trasformazione dei suoi “modi di pensare”, prodotta dalla crisi, prende corpo il grande progetto della Logica e della fondazione delle “scienze morali” (System of Logic, cit., vol. VI). Infatti, per trovare “fondamenti” davvero “sufficienti” a fare delle questioni etiche e politiche “una materia di precisa e filosofica considerazione” (Remarks on Bentham’s Philosophy, 1833, p. 6 e p. 15) occorre “fare luce il più possibile in materia di metodo”, rinnovando la “scienza della scienza stessa”, l’unica che Mill si senta mai “capace di fare progredire” (Earlier Letters, 1812-1848, pp. 78-79).

E anche in logica, il problema è quello di fare coesistere la “logica della coerenza” e del puro “raziocinio”, in cui eccellono i benthamiti, con una “logica della verità” e dell’“inferenza reale” necessaria alla fondazione multilaterale delle scienze politiche e sociali (System of Logic, cit., p. 182n, p. 204, p. 208). Certamente spetta al metafisico “la percezione delle Realtà più alte per intuizione diretta”, ma è “compito del logico” far comprendere dimostrativamente la verità a coloro che stentano a riconoscerla. È vero che “la logica non prova nulla”, ma è la logica che “fa chiaramente vedere se e come tutte le cose sono provate” (Earlier Letters, cit., p. 219 e p. 406). Occorre dunque conciliare la pura deduzione con la prova di fatto, superando la difficoltà della scoperta di “nuove verità” per mezzo del “sillogismo”: la limpida soluzione del “paradosso” proposta dal Mill costituisce la chiave di volta di tutta la sua costruzione intellettuale (Autobiography, cit., p. 189).

Il sillogismo, o il ragionamento deduttivo in genere, ci pone infatti di fronte a un paradosso epistemico. Indubbiamente “si deve ammettere”, osserva Mill, “che in ogni sillogismo c’è una petitio principii”, poiché “da un principio generale non possiamo inferire nessun fatto particolare, al di fuori di quelli che il principio stesso assume come noti”. Eppure l’“esperienza quotidiana” ci dice che “si arriva a verità non precedentemente pensate, a fatti che non sono stati e non possono essere direttamente osservati, per mezzo del ragionamento generale”, o del sillogismo, che è appunto la forma di “ragionamento dal generale al particolare” (System of Logic, cit., p. 184). Come si possono allora trovare, ragionando, nuove verità che non siano già contenute nelle premesse?

Mill risolve “il grande paradosso della scoperta di nuove verità attraverso il ragionamento generale” estendendo le considerazioni di Dugald Stewart sull’“uso degli assiomi nel ragionamento deduttivo (ratiocination)” a tutte le proposizioni generali (Autobiography, cit., p. 189). Nella sostanza, Mill sostiene che l’asserzione generale che costituisce la premessa maggiore del sillogismo non è una premessa dichiarata, usata nella deduzione, ma una regola per inferire dall’asserzione particolare, che costituisce la premessa minore del sillogismo, l’asserzione altrettanto particolare che ne costituisce la conclusione. Che anche l’invincibile duca di Wellington ancora vivente fosse mortale era una conclusione a cui non si poteva giungere allora “per osservazione diretta”, ma solo assumendo che tutti gli uomini lo fossero e “per mezzo di un ragionamento” che poteva essere esposto in forma sillogistica: All men are mortal, The Duke of Wellington is a man, therefore The Duke of Wellington is mortal (System of Logic, cit., pp. 184-185). Dunque, secondo Mill, solo un’“inferenza reale”, ossia un’“inferenza dal particolare al particolare” può costituire un ragionamento valido; ma tutti i ragionamenti validi “possono (admit)” allo stesso tempo “essere generalizzati” e “debbono (require)” essere “presentati in forma generale, perché ne sia verificata la legittimità (warrantableness)” (System of Logic, cit., p. 182n, p. 193, p. 208).

I principi intermedi

Allo stesso modo, la scelta delle istituzioni utili al governo della società non può essere determinata a priori, ma dipende da circostanze di fatto, che tuttavia possono essere considerate valide, perché deducibili dalle leggi generali della storia. Solo la soluzione logica del “paradosso” del sillogismo può quindi indicare a Mill il modo di determinare la funzione di quei “principi intermedi, vera illa et media axiomata, come dice Bacone”, che è possibile ricavare superando ogni forma di unilateralità (one-sidedness) e ponendosi nell’ottica della multilateralità (many-sidedness). Su tali principi gli uomini “possono essere portati a convenire più facilmente” che non sui “loro principi primi” e su di essi si può ragionevolmente ricercare “l’accordo tra persone” che manifestino una “divergenza diametrale” sulle questioni “ultime” di “metafisica morale” (Bentham, 1843, pp. 110-111).

In ciò consiste l’“eclettismo pratico” di Mill, che non rinuncia tuttavia a difendere la “scuola dell’esperienza” contro la “scuola dell’intuizione” e a distinguere la conoscenza ricavata dai fatti dal “pregiudizio”, rifiutando ogni sentimento che sia manifestamente artificiale, ogni generalità assunta come “ideale di virtù”, dietro la quale si celino soltanto “interessi di classe”, manifestamente “parziali e sinistri” (ivi, pp. 109-110). L’obiettivo della logica è dichiaratamente quello di riuscire a fondare la morale e la filosofia della mente su basi empiriche, contro la filosofia dell’intuizione. Mill è convinto “che quasi tutte le differenze di opinione fossero, se analizzate, differenze di metodo” (Earlier Letters, cit., p. 79) e una volta ammesso che “la logica è terreno comune su cui i partigiani di Hartley e di Reid, di Locke e di Kant, possono incontrarsi e stringersi la mano” (System of Logic, cit., p. 14) diventa possibile, a partire da principi secondari comunemente riconosciuti, verificare la compatibilità tra ciò che tutti accettano e i rispettivi principi primi. La logica può così essere considerata come un vero e proprio “libro di testo della dottrina che si oppone” a quella “concezione aprioristica della conoscenza umana” che si erge come “il grande sostegno intellettuale delle false dottrine e delle cattive istituzioni” (Autobiography, cit., p. 233). Si tratta quindi semplicemente di concordare sul metodo, i cui principi non sono “in coscienza” stati affermati “allo scopo di stabilire opinioni preconcette”, e di accogliere come principi intermedi della scienza sociale e politica principi accettati comunemente da scuole diverse e riconosciuti come veri in un’ottica multilaterale (System of Logic, cit., p. 14).

Individuo e società

Ed è sulla base di questi principi di metodo e di questo nuovo modo di pensare che procede l’ampliamento delle opinioni accettate da Mill sul piano delle dottrine morali e delle teorie politiche e sociali. L’adeguatezza del metodo ne garantisce la corretta fondazione scientifica. Come l’immaginazione poetica viene a costituire il nucleo della sua progettata scienza della formazione del carattere, allo stesso modo una filosofia della cultura, mutuata da Coleridge e dalla sua scuola, viene a costituire la base per una teoria scientifica dello sviluppo sociale, costruita con l’apporto di una filosofia della storia ricavata dal modello sansimoniano della successione di epoche organiche e epoche critiche.

La struttura teorica della “scienza dell’uomo individuale” e della “scienza dell’uomo in società” (ivi, p. 875) risultano così molto simili. Infatti, Mill introduce ora tra le motivazioni dell’agire, accanto all’interesse personale, i sentimenti morali colti dall’immaginazione; questi sono costituiti da abiti che si consolidano per gli effetti prodotti sul nostro io dalle azioni compiute consciamente; in questo modo egli riesce a spiegare come, attraverso l’educazione interiore, l’individuo guidato dall’immaginazione contribuisca autonomamente alla formazione del proprio carattere. In modo del tutto analogo, Mill comprende tra le ragioni dell’obbedienza all’autorità costituita non solo il desiderio dei singoli di tutelare i propri interessi materiali, ma anche le credenze e i sentimenti che sono oggetto dell’immaginazione collettiva, ossia quegli abiti sociali che si formano per gli effetti prodotti sulla società dalle stesse istituzioni, scelte, rispettate e dirette dalla mentalità collettiva; diventa così possibile spiegare, a suo giudizio, come il corpo sociale riesca a orientare autonomamente, attraverso un adeguato sistema di istruzione, lo sviluppo del proprio carattere nazionale.

Questo, in sostanza, è l’insieme delle opinioni e dei modi di pensare che Mill forma multilateralmente col superamento della giovanile crisi mentale e che costituisce la base per lo sviluppo delle sue più mature teorie politiche e sociali e del suo impegno culturale e civile nelle discussioni e nelle battaglie politiche del tempo.