Giovanni Duns Scoto


Il primo principio degli esseri



traduzione e commento di
Pietro Scapin

Padova, Liviana, 1973






CAPITOLO PRIMO

NOZIONE E DIVISIONE DELL’ORDINE ESSENZIALE

SOMMARIO. — Volendo determinare l’ambito della conoscenza razionale di Dio, conviene iniziare dalla esistenza di Lui. Poiché questa non è evidente, bisogna dimostrarla. A tale scopo, l’intelligenza riflette sugli esseri finiti, cogliendone l’ordine essenziale che tutti li unifica. In senso largo, tale ordine è una relazione d’equiparanza o una relazione simmetrica che unisce un essere anteriore con uno posteriore, poggiando non sulle loro determinazioni accidentali quali sono, per esempio, la continuità spaziale e la successione temporale, ma sulla loro stessa essenza. Perciò, l’ordine si chiama essenziale. Ora, se l’essere anteriore è più perfetto di quello posteriore, la relazione che sorge tra i due costituisce l’ordine essenziale di eminenza; viceversa, se l’essere posteriore dipende, nella sua esistenza, da quello anteriore, la relazione che sorge tra i due costituisce l’ordine essenziale di dipendenza. Poiché, però, la dipendenza può essere di natura diversa, diversa è pure la relazione che ne risulta.

Infatti, l’essere anteriore può rappresentare o una causa o una condizione di quello posteriore: se rappresenta una causa o un principio che, in un modo o nell’altro, influisce sull’essere stesso del posteriore, poiché ci sono quattro tipi di causa (finale, efficiente, materiale e formale), quattro saranno le relazioni distinte che sorgeranno tra l’anteriore e il posteriore. Viceversa, se l’essere anteriore rappresenta una condizione essenziale, prossima e remota, del posteriore o se rappresenta un fattore capace di impedire l’influsso causale, l’ordine essenziale che ne risulta è quello di condizionamento. In tal modo, l’ordine essenziale somiglia a un tessuto connettivo che unisce gli esseri secondo la prospettiva della perfezione ontologica, connotata dalla loro essenza rispettiva, e secondo la prospettiva del fieri, connesso con la loro esistenza.

In concreto, l’ordine essenziale si dispiega, dunque, nelle relazioni vigenti tra l’anteriore eminente e il posteriore ecceduto, tra l’anteriore che è causa finale e il posteriore che è “finito”, tra l’anteriore che è causa efficiente e il posteriore che è “effetto”, tra l’anteriore che è causa materiale e il posteriore che è “materiato”, tra l’anteriore che è causa formale e il posteriore che è “formato”, tra l’anteriore che è condizione e il posteriore che è condizionato. In breve, il tessuto connettivo che unisce tutti gli esseri al livello della loro essenza si dispiega in sei relazioni fondamentali, ciascuna delle quali, in maniera diversa, costituisce l’ordine essenziale.


CAPITOLO PRIMO

NOZIONE E DIVISIONE DELL’ORDINE ESSENZIALE

1.  Elevazione dell’animo a Dio.

Il Primo Principio degli esseri [1] mi conceda di credere, gustare ed esprimere quanto è gradito alla sua maestà e innalza la nostra mente alla sua contemplazione.

Signore, Dio nostro, quando Mosè, tuo servo, Ti domandò, come a dottore sommamente verace, quale nome avrebbe dovuto darti davanti ai figli d’Israele, Tu, sapendo ciò che può conoscere di Te l’intelletto umano, svelandogli il tuo nome benedetto, hai risposto: IO SONO COLUI CHE SONO.[2]

Tu sei l’Essere vero,[3] l’Essere totale. — Ecco quello che vorrei comprendere, se fosse possibile. — Aiutami, o Signore, a determinare quanto può conoscere dell’Essere vero che sei Tu la nostra ragione naturale,[4] cominciando dall’ente [5] che hai detto di essere.

2.  L’ordine essenziale come punto di partenza.

Sono molte le proprietà dell’ente [6] che si possono considerare per raggiungere il nostro scopo. Ma io preferisco considerare l’ordine essenziale, perché ne è la proprietà più feconda, procedendo nel modo seguente: in questo primo capitolo indicherò le quattro divisioni dell’ordine essenziale, stabilendo così il numero degli ordini essenziali.

Ora, una vera divisione [7] deve soddisfare ai seguenti requisiti: primo, chiarire i termini in modo da dimostrare che sono contenuti nel dividendo; secondo, far vedere che sono tra loro irriducibili; terzo, provare che esauriscono il dividendo.

Del primo requisito tratterà questo primo capitolo; degli altri, invece, tratterà il capitolo secondo. Qui, dunque, mi limiterò a indicare le divisioni e a determinare le nozioni dei termini rispettivi.

3.  Concetto di ordine essenziale.

Non considero l’ordine essenziale in senso stretto — come fanno alcuni,[8] i quali affermano che è ordinato il posteriore, ma non l’anteriore, rimanendo questo al di sopra dell’ordine —, ma in senso largo, nel senso cioè in cui l’ordine è una relazione d’equiparanza tra l’anteriore e il posteriore oppure nel senso in cui ciò che costituisce l’ordine rimane adeguatamente diviso tra l’anteriore e il posteriore.[9]

Pertanto, si parlerà, indifferentemente, ora di ordine e ora di anteriorità e posteriorità.

4.  Primaria divisione dell’ordine essenziale.

Anzitutto, l’ordine essenziale sembra dividersi primariamente nell’ordine di eminenza e di dipendenza come il termine equivoco si scompone nei diversi concetti che serve a indicare.[10]

5.  L’ordine essenziale di eminenza.

Nell’ordine di eminenza, l’anteriore si dice eminente e il posteriore si chiama ecceduto. In breve: tutto ciò che è più perfetto e più nobile secondo l’essenza, è anteriore in questo senso.[11]

Proprio in questo senso Aristotele, nel nono libro della Metafisica, dimostra che l’atto è anteriore rispetto alla potenza, chiamandolo anteriore dal punto di vista della sostanza e della specie. Dice, infatti: « Le cose posteriori nella linea della generazione, sono anteriori nella linea della sostanza e della specie ».[12]

6.  L’ordine essenziale di dipendenza.

Nell’ordine di dipendenza, l’anteriore è ciò da cui una cosa dipende e il posteriore è la cosa che dipende.[13] La nozione di quest’anteriore, io la concepisco come Aristotele nel quinto libro della Metafisica,[14] dove egli, richiamandosi a Platone,[15] dimostra che l’anteriore secondo la natura e l’essenza può esistere senza il posteriore, non viceversa. Io, dunque, penso così: anche se l’anteriore producesse necessariamente il posteriore e, quindi, non potesse esistere senza di esso, ciò non avviene perché l’anteriore, per esistere, abbia bisogno del posteriore, ma viceversa, non essendo assurdo che esista l’anteriore senza il posteriore. Il posteriore, invece, non potrebbe esistere senza l’anteriore, perché ne ha assoluto bisogno — e tale bisogno, possiamo chiamarlo dipendenza in modo da poter dire che quanto è essenzialmente posteriore dipende necessariamente da quanto è anteriore, ma non viceversa, anche se talvolta il posteriore deriva necessariamente dall’anteriore.

Anche questi due termini si possono chiamare anteriore e posteriore secondo la sostanza e la specie, come i precedenti. Ma, per essere esatti, conviene chiamarli anteriore e posteriore secondo la dipendenza.

7.  Suddivisione dell’ordine essenziale di dipendenza.

Lasciando indiviso l’ordine di eminenza, suddivido l’ordine di dipendenza giacché o il dipendente è effetto e ciò da cui dipende ne è la causa, o è effetto remoto (condizionato) e ciò da cui dipende è l’effetto prossimo della causa d’ambedue (condizione).

8.  Spiegazione della suddivisione.

Le nozioni della prima parte della suddivisione (effetto-causa) sono abbastanza note, come è noto che sono racchiuse nel dividendo (l’ordine di dipendenza). Si sa, infatti, cos’è la causa e cos’è l’effetto, come pure che l’effetto dipende essenzialmente dalla causa e che questa è ciò da cui l’effetto dipende.

Meno note, invece, sono le nozioni della seconda parte della suddivisione (effetto remoto, effetto prossimo, causa comune), né è evidente la loro inclusione nel dividendo (ordine di dipendenza). Spieghiamole, dunque, nel modo seguente: quando una stessa causa produce due effetti di cui uno è prodotto necessariamente prima dell’altro, è evidente che il primo effetto è anteriore e il secondo posteriore rispetto alla stessa causa.

Ecco le nozioni della seconda parte della suddivisione. Ciò posto, è facile dimostrare che esse sono incluse nel dividendo o che l’effetto remoto dipende essenzialmente dall’effetto prossimo. E ciò, in primo luogo, perché l’effetto remoto non può esistere senza l’effetto prossimo; in secondo luogo, perché l’efficacia della causa si riferisce ad essi ordinatamente, cioè prima all’uno e poi all’altro. Ora, poiché sono essenzialmente ordinati rispetto alla loro causa, è evidente che sono essenzialmente ordinati anche tra loro.[16] In terzo luogo, la dipendenza essenziale dell’effetto remoto da quello prossimo appare anche dal fatto che la loro causa comune, di natura sua, è causa prossima solo dell’effetto prossimo e, finché non l’ha prodotto, è solo causa remota degli altri. Certo, una volta prodotto il primo effetto, essa diviene una causa prossima del secondo. Ma da una causa remota, in quanto remota, l’effetto non riceve l’esistenza. Perciò, il secondo effetto dipende dalla sua causa solo in quanto essa ha già prodotto il primo. Per lo stesso motivo, il secondo effetto dipende anche dall’esistenza del primo.

9.  Ulteriore suddivisione dell’ordine di dipendenza.

Ambedue i membri della seconda divisione possono essere suddivisi. Anzitutto, può esser suddiviso il secondo, dato che è in armonia con quanto s’è già detto. In effetti, l’anteriore che corrisponde all’effetto più vicino alla causa, si deve dire più vicino non solo rispetto alla causa comune di due effetti, ma anche rispetto a una loro causa remota.

Supponiamo, per esempio, che la causa prossima d’un effetto, chiamato A, non sia anche causa prossima d’un altro effetto, chiamato B, ma che causa prossima di B sia una causa anteriore e che questa sia causa remota di A. Ebbene, anche in questo caso c’è ordine essenziale tra gli effetti, cioè uno è anteriore e l’altro posteriore, supposto, evidentemente, che l’efficacia della causa comune si riferisca ad essi, considerati come effetti, secondo l’ordine essenziale.[17]

Tuttavia, non è abbastanza chiaro che i termini di questa suddivisione siano contenuti nel dividendo. Ma questo si dimostra così: poiché i due effetti sono essenzialmente ordinati rispetto a una terza cosa, cioè la loro causa comune, essi devono trovarsi essenzialmente ordinati anche tra loro. Anche in tal caso, del resto, la causa comune è causa remota dell’effetto posteriore, finché non sia stato prodotto l’effetto anteriore.

Perciò, neppure qui l’effetto posteriore può esistere senza quello anteriore.

10.  Ultima divisione dell’ordine essenziale.

La prima parte della seconda divisione, cioè la causa, si suddivide nelle quattro cause ben note: finale ed efficiente, materiale e formale. E il termine correlativo, cioè l’effetto, si suddivide nei quattro corrispondenti: l’ordinato a un fine o ‘finito’; il prodotto della causa efficiente o ‘effetto’; il prodotto della materia o ‘materiato’; il prodotto della forma o ‘formato’.

Non mi fermerò a spiegare questi concetti, sia perché ne ho parlato ampiamente altrove,[18] sia perché avrò l’occasione di parlarne ancora più avanti, quando l’argomento lo richiederà.

11.  Sintesi del primo capitolo e scopo del secondo.

Raccogliamo, in breve, il frutto di questo capitolo: l’ordine essenziale ne racchiude sei: quattro risultano dalle relazioni della causa con l’effetto; uno dal rapporto tra effetto ed effetto, includendo nel medesimo ordine i due membri della terza divisione; infine, uno risulta dal rapporto tra l’eminente e l’ecceduto.

La dimostrazione di queste divisioni deve soddisfare ancora a due requisiti: primo, si deve far vedere che i termini d’ogni divisione si escludono reciprocamente e sono irriducibili; secondo, bisogna dimostrare che essi esauriscono il dividendo.

All’uno e all’altro sarà soddisfatto, nella misura in cui lo richiede il nostro scopo, nel capitolo seguente. In esso saranno proposte anche alcune proposizioni generali necessarie e saranno confrontati tra loro gli ordini suddetti nonché i loro estremi, in rapporto alla loro necessaria simultaneità, giacché tali confronti sono molto utili per quanto vedremo in seguito.



CAPITOLO SECONDO

ANALISI COMPARATA DELL’ORDINE ESSENZIALE

SOMMARIO. — L’ordine, come ogni relazione, implica sempre la distinzione e la connessione delle cose ordinate. Ciò si verifica anche nell’ordine essenziale. Pertanto, dopo l’esame della distinzione, conviene esaminare la connessione vigente tra gli esseri essenzialmente ordinati. In via preliminare, bisogna rilevare che l’ordine essenziale non può concernere un solo essere, altrimenti questo sarebbe anteriore e posteriore rispetto a se stesso (§ 13, concl. 1), né può essere concepito come un circolo in cui anteriore e posteriore siano interscambiabili (§ 14, concl. 2), ma è irreversibile (§ 15, concl. 3), giacché un essere anteriore rispetto a un secondo, sarà anteriore anche rispetto a un terzo, a un quarto, e così via.

Ciò posto, confrontando i diversi termini dell’ordine essenziale, la riflessione scopre, in un primo luogo, che sono connessi tra loro quelli che rappresentano il posteriore nell’ordine della dipendenza: “finito”, “effetto”, “materiato” e “formato”, tanto da costituire un’unica cosa: l’effetto esistente in sé; in secondo luogo, avverte che sono connessi anche i termini che rappresentano l’anteriore secondo lo stesso ordine: causa finale, efficiente, materiale e formale, tanto da costituire un’unità sul piano operativo; in terzo luogo, scopre che l’effetto dipende essenzialmente solo dalla sua causa totale, rappresentata dalla convergenza delle quattro cause o dalla Causa Prima assoluta; in quarto luogo, costata che l’effetto posteriore nell’ordine di dipendenza, e l’ecceduto, posteriore secondo l’ordine d’eminenza, sono la stessa cosa, rinviando a un anteriore essenziale nella causazione e nella perfezione.

In effetti, ciò che non dipende da una causa finale o non è “finito”, non dipende neppure da una causa efficiente o non è “effetto” (§ 17, concl. 4) e viceversa (§ 19, concl. 5). Quanto, poi, non è “effetto”, non è neppure “materiato” o composto di materia (§ 23, concl. 6) e ciò che non è “materiato”, non è neppure “formato” o determinato da una forma (§ 24, concl. 7). Inoltre, ciò che dipende rinvia a ciò da cui dipende: l’effetto rinvia alla causa. Ma anche tra le cause c’è connessione essenziale: le cause intrinseche (causa materiale e formale) sono, logicamente, posteriori rispetto alle cause estrinseche (causa finale ed efficiente) nell’esercizio della causalità (§ 25, concl. 8). Fra le une e le altre, però, ci deve essere unità operativa e simultaneità d’azione (§ 26, concl. 9).

Se produce più effetti, una causa è prossima rispetto a quello immediato e remota rispetto agli altri (§ 30, concl. 10) e l’effetto immediato può fungere, a sua volta, da causa o da condizione rispetto ad altri effetti (§ 31, concl. 11). In ogni caso, la dipendenza essenziale fa sempre capo a una causa e, in definitiva, alla Causa Prima (§ 32, concl. 12).

Quindi, per quanto un anteriore secondo l’eminenza non sia necessariamente anteriore secondo la dipendenza (§ 35, concl. 13), in ultima analisi, tutto ciò che è ecceduto è anche “finito” (§ 39, concl. 16), oppure ciò che è finito nella perfezione è prodotto nell’esistenza. Per questo, un essere finito è, sì dotato di efficacia causale, ma non può essere che causa seconda, cioè un essere che svolge un’attività solo perché ha ricevuto l’attualità da altri esseri.


CAPITOLO SECONDO

ANALISI COMPARATA DELL’ORDINE ESSENZIALE

12.  Elevazione dell’animo a Dio.

Signore, Dio nostro, che hai insegnato infallibilmente al santo dottore Agostino quanto egli dice scrivendo di Te nel primo libro De Trinitate, cioè che « nessuna cosa produce la propria esistenza »,[1] non sei, forse, Tu che hai insegnato anche a noi, con altrettanta certezza, quest’altra verità, simile a quella, che:

13.  Conclusione prima: nessuna cosa ha un rapporto di ordine essenziale con se stessa.

Difatti, se si tratta dell’ordine di eminenza, che c’è di più assurdo del fatto che una cosa ecceda se stessa nella linea della perfezione essenziale?

E, a proposito degli altri ordini, c’è cosa più assurda del fatto che un essere dipenda essenzialmente da se stesso o che possa esistere senza di sé?

Del resto è vero pure che:

14.  Conclusione seconda: nessun ordine essenziale può essere concepito come circolare.

Infatti, se una cosa è anteriore rispetto a un’altra che, a sua volta, è anteriore rispetto a un’altra, è evidente che la prima è anteriore anche rispetto a quest’altra. — Non si può negare la seconda affermazione senza, per ciò stesso, negare anche la prima. Se non fosse vera la seconda affermazione, una stessa cosa sarebbe essenzialmente anteriore e posteriore rispetto a un’altra e, perciò, più o meno perfetta di essa o dipendente e indipendente in rapporto ad essa. Ma tutto ciò è lungi dall’essere vero. Dal canto suo, Aristotele esclude la circolarità dell’ordine, almeno per quanto riguarda le dimostrazioni, nel primo libro degli Analitici posteriori.[2] Ma ciò vale ancor più per la realtà.[3]

In base a questa seconda conclusione, ne dimostro una terza, fondandomi sulla prima in cui è virtualmente contenuta. La dimostro qui perché mi gioverà in seguito:

15.  Conclusione terza: una cosa che non è posteriore rispetto a una anteriore, non lo è neppure rispetto a una posteriore.

Questa conclusione risulta provata dalla precedente affermativa. Da essa, poi, risulta pure che una cosa, indipendente da una anteriore, non dipende neppure da una cosa posteriore; risulta, inoltre, che una cosa non prodotta da una causa anteriore, non lo è neppure da una posteriore perché la causa posteriore, nell’esercizio della sua causalità, dipende da quella anteriore.

16.  Programma ulteriore.

Ormai, o Signore, sotto la tua guida possiamo confrontare tra loro i sei ordini suddetti, cominciando dai quattro che sorgono tra la causa e l’effetto. Rinunciamo, tuttavia, all’analisi della loro differenza o del carattere esauriente della loro divisione perché si tratta d’una verità abbastanza chiara.

D’altronde, un’analisi siffatta ci poterebbe per le lunghe, mentre non si richiede necessariamente per il nostro scopo. Ci limiteremo, pertanto, a confrontare tali ordini dal punto di vista della loro simultaneità o della loro connessione in rapporto all’effetto, deducendone sei conclusioni.

17.  Conclusione quarta: ciò che non è finito non è effetto.

Anzitutto, la conclusione si dimostra così: una cosa che non deriva da una vera causa efficiente, non è effetto. Ma una cosa che non dipende da un fine, non deriva da una vera causa efficiente. Dunque, (una cosa che non dipende da un fine, non è effetto).

Dimostrazione della premessa maggiore: in nessun ordine di cose quanto è accidentale è primo.[4] — Aristotele spiega a sufficienza questa verità nel secondo libro della Fisica [5] dove dimostra che natura e intelletto, come cause efficienti per sé, sono necessariamente anteriori rispetto al caso e alla fortuna, che sono accidentalmente cause efficienti. — Ora, una cosa che non deriva da una anteriore non deriva neppure da una posteriore, come appare dalla conclusione precedente. — Parliamo, evidentemente, di cose positive, le sole che possono esser prodotte in senso vero. — Dunque...

Così risulta evidente la premessa maggiore. Dimostrazione della premessa minore: ogni causa efficiente per sé opera per un fine perché nessun essere opera invano.[6] — è una verità, questa, che Aristotele stabilisce, nel secondo libro della Fisica,[7] a proposito della natura nella quale essa sembra meno evidente. — Perciò, una causa efficiente per sé opera sempre per un fine.

18.  Seconda dimostrazione della conclusione.

La conclusione si può dimostrare anche così: il fine è la prima causa nel processo causale; proprio per questo Avicenna lo chiama la causa delle cause.[8] Del resto, il primato del fine si può dimostrare anche razionalmente. Infatti, la causa efficiente produce la forma nella materia proprio perché vi è indotta dal fine, da cui è mossa metaforicamente nel senso che il fine è l’oggetto del suo amore. Il fine, però, non muove così per influsso d’un’altra causa, ma semplicemente perché è fine. Perciò, esso è essenzialmente la prima causa nel processo causale.

Il primato del fine si dimostra anche così: Aristotele, nel quinto libro della Metafisica,[9] dimostra che il fine possiede le caratteristiche che ne fanno una delle cause poiché, per mezzo del fine, si risponde al ‘perché’, cioè alla domanda destinata alla ricerca delle cause. Ora, poiché per mezzo suo si raggiunge il primo ‘perché’, è evidente che esso è la prima causa. L’assunto è evidente. Infatti, alla domanda: « perché opera la causa efficiente? », si risponde: « perché ama il fine o tende verso di esso » e non viceversa. Pertanto, la conclusione principale (quanto non è finito, non è effetto) rimane dimostrata anche per mezzo del primato del fine, appunto perché quanto non ha una causa anteriore (com’è la causa finale), non ha neppure una causa posteriore, in base alla terza conclusione già dimostrata.

19.  Conclusione quinta: ciò che non è effetto non è finito.

Dimostrazione: il fine merita il nome di causa solo in quanto l’essere del finito dipende da esso come da qualcosa di essenzialmente anteriore., Ciò è evidente perché ogni causa, come tale, è anteriore rispetto al proprio effetto. Ma il finito non dipende dal fine, nella sua esistenza, se non nella misura in cui il fine, divenendo oggetto d’amore per la causa efficiente, induce questa a comunicare l’esistenza al finito. Tant’è vero che la causa efficiente non eserciterebbe il suo influsso se il fine, da parte sua, non esercitasse il proprio. Di conseguenza, il fine non produce se non ciò ch’è prodotto dalla causa efficiente per amore del fine stesso.

20.  Corollario: la vera natura della causa finale.[10]

Dalla conclusione deriva un importante corollario riguardante la natura della causa finale. Ci si fa una idea sbagliata del fine se si pensa che la causa finale d’un essere sia la sua operazione ultima o l’oggetto raggiunto per mezzo di essa. Sarebbe errato, infatti, pensare che, in quanto tali, l’operazione ultima o l’oggetto da essa raggiunto, siano la causa finale perché l’una e l’altro conseguono l’esistenza del finito. Questa, però, non dipende essenzialmente né da quell’operazione né dall’oggetto da essa raggiunto. Al contrario, la vera causa finale di quanto è prodotto è esattamente ciò che è amato dalla causa efficiente o ciò per amore di cui l’efficiente produce una cosa, proprio perché tale cosa gli appare connessa con ciò che è oggetto del suo amore. è vero che, talvolta, ciò che è amato è esattamente l’oggetto dell’operazione ultima e, in questo senso, è pure la causa finale. Ma questo non avviene perché l’oggetto sia il termine d’una determinata operazione, bensì perché è oggetto d’amore da parte della causa che produce quell’operazione.

Giustamente, però, talvolta si chiama fine anche l’operazione ultima o quanto essa raggiunge proprio perché è qualcosa di ultimo e, in un certo senso, ottimo, per cui possiede alcune caratteristiche della causa finale.

21.  La produzione e l’efficienza delle Intelligenze secondo Aristotele.

Perciò, Aristotele [11] non sosterrebbe che le Intelligenze hanno, a rigor di termini, una causa finale e non una efficiente. Ma, o dice che hanno soltanto un fine, intendendo con questo l’oggetto dell’operazione perfetta; o, se ammette che hanno una causa efficiente, non può concepirla come una causa che opera mediante il movimento e neppure per mezzo della mutazione, proprio perché le quattro cause sono oggetto della metafisica e, sotto questo aspetto, prescindono dal movimento e dalla mutazione da cui, invece, non prescindono quando sono oggetto della fisica.[12]

Né sosterrebbe che il Primo Principio comunica loro l’essere dopo il non essere — se le considera come eterne e necessarie —, almeno se il ‘dopo’ implica l’ordine di durata.[13] Potrebbe, invece, sostenerlo se il ‘dopo’ suppone soltanto l’ordine di natura, in conformità con la nozione di creazione che Avicenna spiega nel secondo capitolo del sesto libro della sua Metafisica.[14] Del resto, la questione di sapere se la necessità possa convenire o meno a un effetto non infirma il nostro assunto: se, infatti, una causa efficiente può produrre in maniera assolutamente necessaria, è evidente che anche un fine può causare necessariamente, ma non viceversa.

In tal caso, ogni effetto è possibile non solo nel senso in cui ‘possibile’ si oppone a ‘impossibile’, ma anche nel senso in cui si oppone a ‘necessario per sé’, perché l’effetto è oggetto o termine della potenza della propria causa, ma non è ‘possibile’ nel senso in cui il ‘possibile’ si oppone a quello che i Filosofi chiamano ‘necessario in genere’, perché essi escludono la contingenza delle sostanze separate.[15]

22.  Secondo corollario: la vera efficacia del fine.

Da quanto s’è detto, risulta evidente anche un altro corollario, cioè che il fine non è la causa finale della causa efficiente, ma dell’effetto. Perciò, quando si dice che l’agente opera per un fine, non bisogna pensare che operi per il proprio fine, ma per il fine dell’effetto.

23.  Conclusione sesta: ciò che non è effetto non è materiato.

Prima prova: la materia, di natura sua, è in potenza contraddittoria [16] rispetto alla forma. Non può, quindi, attuarsi da sé rispetto ad essa. Perciò, sarà attuata da un altro essere che la riduce dalla potenza all’atto. Ora, questa è appunto la causa efficiente del composto perché ‘attuare il composto’ e ‘far sì che la materia sia in atto per mezzo della forma’ sono la stessa cosa. (Pertanto, ciò che non è effetto non è materiato).

La prima conseguenza (la materia non si attua da sé rispetto alla forma) è evidente perché una potenza puramente passiva e contraddittoria non può attuarsi da sé. Se dicessi che è attuata dalla forma, avresti ragione, ma solo rispetto all’attuazione formale. Tuttavia, poiché la materia e forma sono concepite anzitutto come separate, ciò che le unisce possiede il carattere di causa efficiente, all’intervento della quale consegue l’attuazione formale.

Seconda prova: la causa efficiente è la più vicina alla causa finale. Perciò, è anteriore rispetto alla materia, rispetto alla quale non c’è, in realtà, né anteriore né posteriore, essendo per sé potenza contraddittoria. (Quindi, ciò che non è ‘effetto’ non è neppure ‘materiato’).

La prima proposizione (la causa efficiente è la più vicina alla causa finale) si dimostra perché muovere metaforicamente è appunto l’efficacia del fine. Ora, il fine muove metaforicamente solo la causa efficiente, non le altre cause.

Terza prova: il composto possiede una vera unità. Perciò, ha una realtà che non è, rigorosamente parlando, né quella della materia [17] né quella della forma. Tale realtà, dotata d’una sua unità, non è prodotta originariamente da due realtà perché un essere costituito da più elementi non diviene veramente uno se non in virtù d’un altro. Ma quest’altro non può essere, anzitutto, una delle due componenti perché ciascuna di esse è inferiore rispetto alla realtà del tutto.

Quindi, la realtà del tutto è determinata da qualcosa di distinto dagli elementi che lo compongono.[18]

24.  Conclusione settima: ciò che non è materiato non è formato e viceversa.

Dimostrazione: ciò che non è ‘materiato’ non è composto di parti essenziali perché in un composto del genere, dotato di intrinseca unità, una delle parti è potenziale, giacché l’unità intrinseca non risulta che dall’unione della potenza e dell’atto, come appare dal settimo e ottavo libro della Metafisica.[19]

Pertanto, ciò che non contiene una parte potenziale, non è composto. Quindi, non è neppure ‘formato’, perché il ‘formato’ è un composto che ha la forma come sua parte costitutiva.

La stessa cosa si può dire anche della sostanza e degli accidenti.

Questa prova trova la sua conferma in quanto scrive Aristotele nel settimo libro della Metafisica,[20] dove afferma che se un essere avesse solo un elemento essenziale, esso si ridurrebbe a quel solo elemento. Anzi, in tal caso, non si potrebbe neppure parlare di elemento, come appare dalla prima conclusione di questo secondo capitolo ( = nulla dipende essenzialmente da sé).

Dunque, analogamente, si può dire anche che un essere composto d’una sola parte essenziale si riduce ad essa soltanto. Anzi, rigorosamente parlando, quella non si può chiamare né parte né causa, in virtù della prima conclusione cui abbiamo accennato. Quindi, tutto ciò ch’è prodotto da una causa intrinseca possiede pure un’altra causa intrinseca che funge da concausa. In tal modo, la conclusione proposta risulta evidente.

25.  Conclusione ottava: ciò che non è prodotto da cause estrinseche, non lo è neppure da cause intrinseche.

La conclusione è evidente già a partire dalle quattro precedenti, ma si può anche dimostrare con ragioni particolari. La prima di queste consiste nel fatto che l’efficacia delle cause estrinseche indica una perfezione tale che non implica necessariamente imperfezione, mentre quella delle cause intrinseche implica necessariamente una certa imperfezione.[21]

Perciò, dal punto di vista causale, le cause estrinseche sono anteriori rispetto alle intrinseche proprio come il perfetto è anteriore rispetto all’imperfetto. A questo s’aggiunga la terza conclusione ( = quanto non è effetto d’una causa anteriore, non lo è neppure d’una posteriore) e la conclusione risulterà evidente.

La seconda ragione particolare sta nel fatto che le cause intrinseche possono essere prodotte dalle estrinseche; quindi, sono causalmente posteriori rispetto ad esse. L’affermazione vale non solo per la forma, ma anche per la materia, considerata come parte del composto.

Più avanti dimostreremo che ciò vale anche per la materia considerata in se stessa.[22]

26.  Conclusione nona: le quattro cause, nel produrre una stessa cosa, sono essenzialmente ordinate.

Ciò è evidente in base alle cinque conclusioni precedenti, ma è anche logico che quando una cosa dipende essenzialmente da più fattori, tra questi esista un certo ordine secondo il quale essa dipende ordinatamente da essi. Difatti, quando più elementi non costituiscono, tra loro, una realtà simile a quella che sorge dall’unione dell’atto e della potenza o, almeno, non hanno un’unità d’ordine, non possono produrre qualcosa di essenzialmente identico. Quindi, poiché le quattro cause non sono le parti d’un composto di atto e potenza, se non hanno alcuna unità sul piano operativo, come potranno produrre qualcosa di essenzialmente identico? Bisogna, dunque, ammettere che possiedano un’unità operativa analoga a quella che, grazie all’ordine, fa sì che molte cose nell’universo costituiscano un’unità sul piano dell’essere.[23]

27.  Natura di quest’ordine.

La natura di quest’ordine appare da quanto è stato detto a proposito dei rapporti tra causa finale ed efficiente nella seconda prova tanto della quarta quanto della sesta conclusione, come pure nelle altre prove delle stesse conclusioni, nonché nella dimostrazione dell’ottava conclusione.

La natura, poi, dell’ordine che unisce tra loro le cause intrinseche, non intendo qui esaminarla a fondo,[24] giacché non mi servirà molto in seguito. Comunque, la materia sembra anteriore rispetto alla forma dal punto di vista dell’indipendenza perché ciò che è contingente e informante sembra dipendere da ciò che è permanente e informato, dato che quanto può ricevere una forma è logicamente anteriore rispetto a ciò che lo può informare.

In questo senso, alcuni interpretano il passo delle Confessioni [25] in cui S. Agostino parla dell’anteriorità della materia rispetto alla forma. E se domandassi: « Sotto che punto di vista la materia è anteriore alla forma? ». Ebbene, risponderei che è anteriore come un effetto prossimo rispetto alla medesima causa remota, cioè nel senso che la stessa causa produce, anzitutto, necessariamente la materia e da essa, poi, ricava la forma. Tuttavia, la forma è anteriore alla materia dal punto di vista dell’eminenza, appunto perché è più perfetta.

Questa verità è presentata come evidente da Aristotele nel settimo libro della Metafisica,[26] dove paragona materia e forma, per quanto si possa anche dimostrarla per mezzo di ciò che egli stesso dice nel nono libro della Metafisica a proposito dell’atto e della potenza.[27]

28.  Unità nell’operare e unità nell’essere.

Si avverta, però, che altro è la coordinazione essenziale delle cause e altro la coordinazione degli esseri che fanno da cause, come appare da quanto dice Avicenna nel sesto capitolo del quinto libro della sua Metafisica.[28] Perché, in effetti, la coordinazione delle cause è una verità già dimostrata — in caso contrario, sarebbero sbagliate le seguenti affermazioni che, invece, comunemente si considerano vere: « la causa efficiente produce l’effetto perché ama il fine » e « proprio perché essa produce, la forma informa e la materia è informata » —, mentre la coordinazione essenziale degli esseri che fungono da cause non è vera, giacché il fine non produce la causa efficiente, né è vero il contrario, talvolta.

Generalmente, però, la causa efficiente non produce la materia, ma la presuppone.

29.  Ulteriore programma.

Dopo il confronto fra i termini della quarta divisione,[29] non insisto sulla terza [30] perché è evidente che i suoi termini sono tra loro irriducibili ed esauriscono il dividendo. Infatti,

30.  Conclusione decima: quando due effetti si riferiscono alla stessa causa, questa è, rispetto ad essi, o prossima o remota.

Per quanto riguarda la seconda divisione,[31] propongo due conclusioni, la prima delle quali si riferisce alla distinzione dei termini.

31.  Conclusione undecima: non ogni effetto prossimo è, a sua volta, causa dell’effetto remoto d’una stessa causa. Si dà, quindi, qualche effetto anteriore rispetto ad un altro senza che ne sia causa.

L’antecedente si dimostra tanto con un esempio quanto con una ragione. Come esempio, si prenda il seguente: la quantità è effetto prossimo rispetto alla qualità senza che la quantità sia causa della qualità.[32] La cosa è evidente quando si esamino le diverse cause. — La ragione, invece... [33]

La seconda conclusione riguarda il carattere esauriente della divisione.

32.  Conclusione duodecima: una cosa dipende essenzialmente solo dalla sua causa o dall’effetto prossimo di essa.

Dimostrazione: supponiamo che dipenda anche da un altro fattore, che chiamiamo A, mentre la cosa che dipende sia detta B. Ora, se A non esiste, non esisterà neppure B. Ma la non esistenza di A non impedisce che esistano e concorrano alla produzione di B non solo tutte le cause essenziali, ma anche tutte le sue condizioni perché, per ipotesi, A non fa parte né delle une, né delle altre. E, nonostante il concorso di tutte le cause e di tutte le condizioni di B, questo non esisterà. Dunque, tutte le cause essenziali non sono cause sufficienti, neppure quando siano state già poste tutte le condizioni per la produzione di B. La conseguenza è chiara perché le cause sufficienti, una volta prodotti gli effetti prossimi, possono produrre anche un effetto remoto.

Se osservassi che l’argomento non esclude la possibilità che producano, ma solo il fatto che producano, risponderei che l’osservazione è inutile perché dal momento che A non fa parte né delle cause né delle condizioni di B, questo non potrà mai esistere. è evidente, infatti, che A non può venire all’esistenza per mezzo delle cause e delle condizioni di B, non appartenendo né all’insieme delle une né all’insieme delle altre.

Perciò, B non può esistere in virtù dell’insieme delle sue cause e delle sue condizioni, giacché una cosa non può ricevere l’esistenza da chi non sia in grado di produrre quanto è indispensabile per la produzione della propria esistenza.[34]

33.  Nuova istanza contro la conclusione.

Se dicessi: « Il composto può venir prodotto da un agente naturale, anche se questo non può produrre la materia, senza di cui il composto non può esistere », risponderei che l’istanza non vale. Infatti, l’agente naturale non è causa totale del composto, non è cioè l’essere da cui può derivare il composto, prescindendo da tutto il resto. Mentre io parlo appunto della causa totale e osservo che B non può essere prodotto neppure quando alla sua produzione concorrano tutte le sue cause e tutti gli effetti prossimi o condizioni, perché A non può esser prodotto da loro, rimanendo fuori del numero sia di quelle cause sia di quelli effetti.

D’altra parte, senza A non può essere prodotto B. Perciò, questo non può esser prodotto da tutti quei fattori uniti insieme, cioè tutti quei fattori non rappresentano la causa totale di B. Ma ciò è proprio il contrario di quanto si era presupposto. (Quindi, B non dipende essenzialmente da A e, di conseguenza, l’effetto dipende essenzialmente solo dalla propria causa ed eventualmente dall’effetto prossimo di essa).

34.  Ulteriore programma.

Riguardo alla prima divisione,[35] formulo due conclusioni la prima delle quali si riferisce alla distinzione dei termini.

35.  Conclusione decima terza: non tutto ciò che è ecceduto dipende essenzialmente da ciò che è eminente. Perciò, l’esistenza dell’eminente non implica l’esistenza dell’ecceduto.[36]

Prova dell’antecedente: una specie più nobile è eminente rispetto a una meno nobile; così, di due contrari, quello più nobile è eminente rispetto all’altro, senza per ciò stesso esserne causa, come appare per induzione. Né è, necessariamente, effetto prossimo d’una causa comune, perché l’efficacia della causa comune non si riferisce ad essi, in quanto effetti, secondo l’ordine essenziale. Se non fosse così, la causa non potrebbe produrre l’ecceduto se non dopo aver prodotto l’eminente. Ma ciò è sbagliato rispetto a qualsiasi causa, perché il termine meno nobile può esser prodotto da una causa senza che il termine più nobile sia prodotto da alcun’altra. Quindi, tali contrari non sono ordinati essenzialmente rispetto ad alcuna causa. Di più, se l’eminente non è causa dell’ecceduto né effetto prossimo d’una causa comune, è evidente che l’ecceduto non dipende essenzialmente dall’eminente. Questa conseguenza sgorga da quella precedente.

Per maggior chiarezza, formulo anche il contrario di questa conclusione.

36.  Conclusione decima quarta: non ogni dipendente è inferiore rispetto a ciò da cui dipende.

è evidente, infatti, che il composto dipende dalla materia e, tuttavia, è molto più perfetto di essa. Parimenti, forse la forma dipende dalla materia, come s’è accennato nella nona conclusione, eppure essa è più perfetta della materia, come risulta dal settimo libro della Metafisica.[37] Anche nell’ambito dei movimenti ordinati, quanto è posteriore per generazione dipende da quanto è anteriore — perché è effetto prossimo della causa comune — eppure il posteriore è più perfetto, come appare dal libro nono della Metafisica d’Aristotele.[38] Per quanto riguarda il carattere esauriente della divisione, formulo la seguente conclusione generale, abbastanza nota presso Aristotele.[39]

37.  Conclusione decima quinta: non si deve mai affermare la pluralità dove non sia rigorosamente necessaria.

Ora, poiché non è rigorosamente necessario ammettere altri ordini essenziali primari, oltre i due già indicati,[40] bisogna affermare che essi sono gli unici. Tale affermazione generale dimostra pure che gli ordini essenziali sono sei,[41] cioè quanti ne abbiamo dimostrati. Non c’è alcuna necessità di porne altri.

38.  Ulteriore programma.

Dopo aver confrontato tra loro, in generale, i termini della prima divisione, confrontiamo ora, in particolare, il secondo termine del primo ordine con i secondi termini del secondo, confrontiamo cioè l’ecceduto con 1’‘effetto’ e il ‘finito’, limitandoci a proporre una sola conclusione.

39.  Conclusione decima sesta: tutto ciò che è ‘finito’, è ecceduto.[42]

Prova: il fine è migliore del ‘finito’ perché è il fine che, in quanto amato, induce la causa efficiente a produrre il ‘finito’. In effetti, il fine A non rappresenta un bene minore del ‘finito’ B, e neppure un bene uguale, ma maggiore. Che non rappresenti un bene eguale, è chiaro altrimenti il fine moverebbe per lo stesso motivo per il quale può muovere anche il ‘finito’, dato che questo sarebbe egualmente amabile e desiderabile. In questo caso, però, il ‘finito’ sarebbe causa finale di se stesso, il che è impossibile giacché nulla è causa di sé, come dice la prima conclusione di questo capitolo. Per lo stesso motivo bisogna concludere che il fine non può rappresentare un bene minore del ‘finito’. (Quindi, rappresenta un bene maggiore del ‘finito’).

Inoltre, la natura opera per un fine come l’arte, quando obbedisce alle esigenze della propria natura. Ma il principio della conoscenza, nell’ambito dell’arte, si desume dal fine come appare dal secondo libro della Fisica.[43] d’altra parte, il principio contiene maggior verità della conclusione. Quindi, il fine — che contiene virtualmente il ‘finito’ — è più perfetto del ‘finito’ come il principio — che contiene virtualmente la conclusione — è più perfetto del soggetto della conclusione.[44]

40.  Difficoltà del comportamento della volontà libera.

Dirai: « La volontà, talvolta, produce qualcosa per amore d’un bene minore di quello che fa e, quindi, in tal caso, il fine è minore del ‘finito’ che ne dipende. Del resto, l’antecedente è comprovato da ogni atto buono, di natura sua, ma cattivo a motivo del fine, appunto perché dall’agente è ordinato a un fine minore di esso ».

Io rispondo: « La conclusione vale per il fine corrispondente alla natura delle cose com’è appunto il fine della natura e della volontà ordinata. Ma neppure la volontà disordinata intacca il valore della conclusione, perché tale volontà non è la causa prima dell’effetto. Pertanto, pur essendo ordinato a un fine meno perfetto dalla volontà cattiva, quest’atto è ordinato a un fine più perfetto da una causa superiore ordinata, altrimenti questa non sarebbe ordinata, come dimostra la prova della conclusione. Orbene, se in quanto è prodotto da una causa superiore il ‘finito’ ha un fine più perfetto, è evidente che rappresenta un bene inferiore al fine anche se non si tratta necessariamente del fine prossimo, per amor del quale esso viene prodotto dalla causa prossima disordinata.

41.  Ultima istanza.

Si potrebbe dire anche che il fine prossimo è fine soltanto sotto un certo aspetto — secundum quid —, ma quest’espressione non mi garba perché l’efficienza d’una causa posteriore è un’autentica efficienza.[45]

Pertanto, se la causa posteriore non produce solo in quanto è mossa — come il bastone che non è vero agente, ma opera solo come un effetto prossimo o una condizione e, perciò, non ha un suo fine —, se, dico, non opera come un semplice strumento, allora la causa posteriore possiede un vero fine, giacché ad ogni vera causa efficiente corrisponde un fine vero e proprio.





CAPITOLO TERZO

TRIPLICE PRIMATO DEL PRIMO PRINCIPIO DEGLI ESSERI

SOMMARIO. — Riflettendo sugli effetti e lasciando da parte le cause intrinseche, perché essenzialmente imperfette (§ 25), l’intelligenza avverte che l’ordine essenziale la conduce ad affermare una Natura assolutamente prima nell’ordine dell’efficienza, della finalità e dell’eminenza. Il processo inferenziale è simile per tutti e tre gli ordini. Considerando le cose sotto l’aspetto possibile, se ne rileva l’attività: alcune cose sono capaci di produrre (§ 44, concl. 1), dato che ci sono cose effettivamente prodotte; tra le cose capaci di produrre, o tra le cause efficienti, ce n’è una essenzialmente prima (§ 46, concl. 2); questa è affatto incausabile (§ 53, concl. 3) e, quindi, esiste in atto senza dipendere da alcunché di diverso da essa, altrimenti non sarebbe assolutamente prima (§ 54, concl. 4).

Analogamente, considerando le cose sotto il profilo della finalità, si riceva che ci sono cause finali, necessariamente postulate dalle cause sufficienti (§ 61, concl. 7); tra le cause finali ce n’è una assolutamente ultima (§ 62, concl. 8) e, quindi, affatto incausabile (§ 63, concl. 9) e attualmente esistente (§ 64, concl. 10). Allo stesso modo, riflettendo sulla perfezione delle cose, queste appaiono inegualmente perfette. Esse formano, dunque, una gerarchia al cui vertice si trova una Natura supremamente perfetta o assolutamente prima nella perfezione (§ 66, concl. 12), incausabile (§ 67, concl. 13) e, quindi, attualmente esistente, altrimenti non sarebbe supremamente perfetta (§ 68, concl. 14).

A questo punto, si potrebbe pensare che esistano tre Nature assolutamente prime; in realtà, però, il primato di efficienza, di finalità e di eminenza non può convenire che ad un’unica Natura (§ 69, concl. 15). In effetti, se fossero tre, fra loro esisterebbe l’ordine essenziale di eminenza in virtù del quale una è anteriore e l’altra posteriore, ma solo una è assolutamente prima. Pertanto, solo una Natura esiste in atto come assolutamente prima (§ 76, concl. 19), riassumendo in sé i tre primati come tre suoi aspetti essenziali: la somma comunicabilità, la somma amabilità e la somma perfezione. Non c’è alcun essere che non sia né anteriore né posteriore, giacché « ogni essere è ordinato » (§ 79). Ognuno è o anteriore o posteriore rispetto agli altri e, in definitiva, tutti gli esseri finiti sono essenzialmente posteriori rispetto all’Essere assolutamente primo nel triplice ordine dell’efficienza, della finalità e dell’eminenza.


CAPITOLO TERZO

TRIPLICE PRIMATO DEL PRIMO PRINCIPIO DEGLI ESSERI

42.  Elevazione dell’animo a Dio.

Signore, Dio nostro, che ti sei proclamato il primo e l’ultimo,[1] insegna al tuo servo il modo di dimostrare con la ragione ciò che ritiene certissimo per fede, cioè che Tu sei l’Efficiente Primo, il Primo Eminente e il Fine Ultimo.

43.  Scopo del Capitolo.

Dei sei ordini essenziali di cui abbiamo parlato, ne scelgo tre: due riguardanti la causalità estrinseca e uno l’ordine di eminenza e, se me ne dai la grazia, dimostrerò che in questi tre ordini c’è una Natura assolutamente prima. Dico ‘una natura’, perché in questo terzo capitolo cercherò di dimostrare che il triplice primato suddetto appartiene non a un essere singolare — uno di numero — ma a una quiddità o a una natura.[2]

Dell’unità numerica parleremo più avanti.

44.  Conclusione prima: tra gli enti c’è una natura capace di produrre.

Dimostrazione: qualche natura può essere prodotta. Quindi qualche natura può produrla o è dotata di efficienza. La conseguenza deriva dalla natura dei correlativi[3]. l’antecedente, poi, si impone per due ragioni: prima, perché c’è qualche natura contingente; quindi, tale da poter avere l’esistenza che prima non aveva. Ora, l’esistenza non può averla da sé né riceverla dal nulla, perché in ambedue i casi l’essere deriverebbe dal non essere. Perciò, qualche natura può ricevere l’esistenza da un’altra.

La seconda ragione è che qualche natura è mutevole nel senso che può essere privata d’una perfezione di cui è capace. Quindi, il termine del movimento può cominciare e, perciò stesso, esser prodotto.

45.  L’essere possibile quale fondamento della conoscenza di Dio.

In questa conclusione, come in alcune di quelle successive, potrei fondare il ragionamento sull’essere attuale e dire: qualche natura è dotata di efficienza perché qualcuna è prodotta e qualcuna è prodotta perché comincia ad esistere o è termine del movimento e contingente. Ma preferisco servirmi di premesse e conclusioni fondate sull’essere possibile, giacché, una volta ammesse le conclusioni fondate sull’essere attuale, si ammettono anche quelle fondate sull’essere possibile, ma non viceversa.

Inoltre, le conclusioni fondate sull’essere attuale sono contingenti, per quanto abbastanza evidenti, mentre quelle fondate sull’essere possibile sono necessarie. Infine, le prime riguardano l’esistenza attuale; le seconde, invece, possono riferirsi propriamente anche all’esistenza possibile.[4] — Più avanti dimostreremo l’esistenza della natura di cui ora proviamo l’efficienza.

46.  Conclusione seconda: c’è un efficiente assolutamente primo, cioè non effettuabile ed efficiente solo in virtù propria.

Questa conclusione si dimostra a partire dalla precedente: è possibile un efficiente. Chiamiamolo A.

Ora, se A è assolutamente primo, la conclusione è già dimostrata. Se non è assolutamente primo, sarà un efficiente relativo, un efficiente posteriore, o perché producibile da un altro o perché producente in virtù d’un altro. — Negare che sia efficiente assolutamente primo, significa affermare che è efficiente relativo o posteriore.[5]

Ebbene, chiamiamo quest’altro B e su esso ragioniamo come su A. Ora, o si procederà all’infinito nella serie degli efficienti, ciascuno dei quali sarà posteriore rispetto a un anteriore o ci si fermerà in uno che non ha anteriore (ed è, quindi, assolutamente primo). Ma il processo all’infinito è impossibile. Perciò, è necessario ammettere un efficiente primo, giacché ciò che non ha anteriore non è posteriore rispetto a nulla.

In effetti, già la seconda conclusione dei capitolo secondo escludeva la circolarità nell’ambito delle cause.

47.  La difficoltà delle generazioni infinite.

Obiezione: i filosofanti [6] considerano possibile il processo all’infinito, affermando una serie infinita di generanti, nessuno dei quali sarebbe primo, ma ciascuno secondo, senza che ciò sembri loro implicare una circolarità causale.

Respingendo l’obiezione, dico che i filosofi non ammisero la possibilità d’una serie infinita di cause essenzialmente ordinate, ma solo la possibilità d’una serie infinita di cause accidentalmente ordinate, come risulta dal capitolo quinto del sesto libro della Metafisica d’Avicenna, dove si parla dell’infinità degli individui nell’ambito della stessa specie.[7]

48.  Ordine essenziale e ordine accidentale tra le cause.

Ma per dimostrare tale impossibilità spiego cosa sono le cause essenzialmente ordinate e le cause accidentalmente ordinate. Bisogna sapere, infatti, che altro è parlare di cause essenziali e di cause accidentali e altro parlare di cause essenzialmente ordinate e di cause accidentalmente ordinate.[8]

In effetti, nel primo caso si tratta d’un rapporto tra due termini, cioè tra la causa e il suo effetto, ed è causa essenziale quella che produce in virtù della propria natura e non in virtù di una delle sue perfezioni accidentali. Nel secondo caso, invece, si tratta d’un rapporto che unisce tra loro due cause in quanto dalla loro unione deriva uno stesso effetto.

Ora, le cause essenzialmente ordinate si distinguono dalle cause accidentalmente ordinate per tre differenze:

1) prima: nelle cause essenzialmente ordinate, la seconda dipende dalla prima nell’esercizio della causalità; nelle cause accidentalmente ordinate, invece, questa dipendenza non ha luogo, anche se la seconda dipende dalla prima nell’esistenza o sotto qualche altro punto di vista;

2) seconda: nelle cause essenzialmente ordinate, l’efficacia delle varie cause è di natura diversa, giacché la causa superiore è più perfetta di quella inferiore; invece, nelle cause accidentalmente ordinate tale diversità non ha sempre luogo. Naturalmente, questa seconda differenza deriva dalla prima, perché nessuna causa dipende essenzialmente da un’altra della stessa natura nell’esercizio della sua causalità.

3) terza: questa deriva dalle due precedenti e consiste nel fatto che le cause essenzialmente ordinate devono necessariamente operare tutte nello stesso tempo, altrimenti verrebbe a mancare un influsso essenziale all’effetto; nelle cause accidentalmente ordinate, invece, la simultaneità dell’azione non è necessaria.[9]

49.  Improcedibilità all’infinito.

Dopo tali precisazioni, si può concludere: è impossibile una serie infinita di cause accidentalmente ordinate perché questa, in ultima analisi, rinvia alla serie di cause essenzialmente ordinate; la serie infinita è impossibile anche se si negasse qualsiasi ordine essenziale.

Perciò, è possibile un efficiente assolutamente primo. Pertanto, dobbiamo dimostrare le tre proposizioni che, per brevità, chiameremo rispettivamente A, B e C.

50.  Impossibilità della serie infinita di cause essenzialmente or dinate.[10]

A o una serie infinita di cause essenzialmente ordinate è impossibile: primo, perché l’insieme delle cause essenzialmente ordinate dipende da una causa che non può essere un elemento della serie, altrimenti essa sarebbe causa di se stessa. Perciò, l’insieme dipende da una causa che non fa parte dell’insieme stesso.

Secondo, perché, se fosse possibile una serie infinita di cause essenzialmente ordinate, queste sarebbero in atto tutte nello stesso tempo, a motivo della terza differenza suddetta. Ma nessun filosofo ammette una conclusione simile.[11]

Terzo, perché quanto è anteriore si trova, di natura sua, più vicino al primo, come appare dal quinto libro della Metafisica di Aristotele.[12] Ma dove non c’è alcun primo, non c’è neppure anteriore.

Quarto, perché ciò che è superiore è causalmente più perfetto, come risulta dalla seconda differenza suddetta. Di conseguenza, ciò che è infinitamente superiore, è infinitamente più perfetto e, per ciò stesso, possiede un’efficacia causale infinita. Non produce, quindi, in virtù d’un altro essere, altrimenti sarebbe una causa imperfetta appunto perché dipenderebbe nell’esercizio della causalità.

Quinto, perché l’efficienza non implica necessariamente alcuna imperfezione, come risulta dall’ottava conclusione del capitolo secondo.[13] Quindi, può trovarsi in una natura senza imperfezione. Ma se si trovasse in ogni natura dipendendo da un’anteriore, non si troverebbe in nessuna senza imperfezione. Perciò, l’efficienza indipendente può trovarsi in una natura e questa è assolutamente prima. è possibile, dunque, un’efficienza assolutamente prima.

Per il momento, basta la possibilità dell’esistenza perché, più avanti, da essa inferiremo l’esistenza attuale.[14]

Così A è stata dimostrata per mezzo di cinque ragioni.

51.  Impossibilità della serie infinita di cause accidentalmente ordinate.

B o una serie infinita di cause accidentalmente ordinate è impossibile perché, se fosse possibile, lo sarebbe non simultaneamente, ma successivamente nel senso che la causa posteriore verrebbe dopo quella anteriore senza, tuttavia, dipendere da essa nell’esercizio della sua causalità, anche se ne dipende sotto altri aspetti. In effetti, essa può agire anche quando la causa anteriore ha cessato di esistere, come avviene nel caso del figlio che può generare tanto se il padre è morto quanto se vive ancora.

Ma una serie infinita di questo genere è impossibile senza dipendere, nella sua totalità, come in ciascuna delle sue parti, da una natura di durata infinita. Infatti, una successione non si perpetua se non in virtù d’un dato permanente estraneo alla successione stessa, giacché tutte le componenti della successione sono dello stesso genere.[15]

C’è, dunque, qualcosa di essenzialmente anteriore da cui dipendono tutte le componenti della successione, qualcosa da cui dipendono non come da causa prossima, perché questa fa parte della successione stessa, (ma come da causa prima).

Così è evidente anche B.

52.  Impossibilità d’una serie infinita fuori dell’ordine essenziale.

C o una serie infinita è impossibile anche se si negasse l’ordine essenziale. Infatti, nella prima conclusione di questo capitolo s’è dimostrato che è possibile una natura dotata di efficienza. Ora, se si nega l’ordine essenziale degli efficienti, è evidente che quella natura non causa in virtù d’alcun’altra. E anche se in qualche essere particolare fosse prodotta, in uno almeno sarà improdotta, il che vale della natura prima.

Del resto, sarebbe contraddittorio dire che é prodotta in ogni individuo e, insieme, negare l’ordine essenziale perché, come risulta dalla dimostrazione di B, non c’è natura che possa essere causata in ogni individuo senza essere, in pari tempo, essenzialmente ordinata a un’altra natura.

53.  Conclusione terza: l’efficiente assolutamente primo é incausabile perché né é effettuabile né effettua in dipendenza da altri.[16]

Questa conclusione si impone con evidenza grazie alla precedente. Infatti, se tale causa fosse effettuabile o effettuasse in virtù d’un’altra, bisognerebbe ammettere o un processo all’infinito o una circolarità di cause o un essere ineffettuabile ed efficiente in maniera indipendente.

Naturalmente, solo quest’essere sarebbe veramente il primo da noi inteso. Gli altri non lo sarebbero mai in tal modo. Di più, se è ineffettuabile, sarà anche incausabile, perché non ordinabile a un fine — come risulta dalla quinta conclusione del secondo capitolo [17] —, né componibile con la materia — come risulta dalla sesta conclusione dello stesso capitolo [18] — né determinabile dalla forma — come risulta dalla settima conclusione del medesimo capitolo [19] —, né componibile con la materia e determinabile dalla forma nello stesso tempo —, come risulta dall’ottava conclusione dello stesso capitolo.[20]

54.  Conclusione quarta: l’efficiente assolutamente primo esiste in atto e una natura attualmente esistente é causa efficiente assolutamente prima.

Prova: se é possibile un essere la cui essenza esclude che possa esistere in dipendenza da un altro, é evidente che, se può esistere, lo può solo in virtù della propria essenza. Ma l’essenza dell’efficiente primo esclude assolutamente che esso possa esistere in dipendenza da un altro, come risulta dalla terza conclusione. E, tuttavia, é possibile, come risulta dalla dimostrazione di A. Anzi, la quinta ragione di A, che sembra meno probante, dimostra precisamente tale possibilità.[21] — Si avverta che le dimostrazioni si possono fondare o sull’esistenza — e in tal caso hanno come base premesse contingenti sì, ma evidenti — o sulla natura, sull’essenza e possibilità — e allora si basano su premesse necessarie.[22]

Ad ogni modo, l’efficiente assolutamente primo é possibile in virtù della propria natura. Ma ciò che non esiste di fatto per virtù propria, neppure può esistere per virtù propria, altrimenti il non essere produrrebbe l’essere, il che é impossibile. Anzi, se ciò che non esiste in virtù propria potesse esistere per virtù propria, ne risulterebbe che una cosa produce se stessa e, quindi, non sarebbe nemmeno assolutamente improducibile.[23]

55.  Altra prova della conclusione e corollario.

Questa quarta conclusione si può dimostrare anche diversamente, facendo osservare che non é conveniente che l’universo sia privo del supremo grado possibile di esistenza.[24] Comunque, si noti il corollario che ne deriva: l’efficiente primo non solo é anteriore agli altri, ma sarebbe contraddittorio che un altro fosse anteriore rispetto ad esso. Perciò, esiste appunto perché primo. E ciò si dimostra come la quarta conclusione. Infatti, la nozione di efficiente primo. racchiude in maniera superlativa la proprietà di essere improducibile. Perciò, se é possibile — e lo é proprio perché non si oppone all’esistenza — è possibile in virtù della sua natura. E, dunque, esiste effettivamente in virtù propria.

56.  Conclusione quinta: l’essere incausabile é intrinsecamente necessario.

Difatti, pur escludendo ogni causa intrinseca ed estrinseca, che non sia lui stesso, di natura sua non può non esistere. E la ragione sta nel fatto che solo una cosa positivamente o, almeno, privativamente incompossibile con lui potrebbe impedirne l’esistenza, giacché almeno uno dei termini della contraddizione é sempre vero.[25]

Ma non ci può essere nulla di positivamente o privativamente incompossibile con l’essere incausabile perché l’esistenza di qualcosa di simile dipenderebbe o dalla propria esistenza o da un altro essere. Ora, nel primo caso, tale ‘qualcosa’ esisterebbe necessariamente in base alla quarta conclusione e così esisterebbero simultaneamente degli esseri tra loro incompossibili. E, per lo stesso motivo, non esisterebbero né l’uno né l’altro giacché, se l’essere incompossibile impedisce l’esistenza dell’incausabile, l’esistenza di quest’ultimo impedisce, a sua volta, quella dell’essere incompossibile con esso.

Né, d’altra parte, l’esistenza dell’incompossibile può dipendere da un altro essere, perché nessun effetto riceve l’esistenza dalla propria causa così efficacemente e così saldamente come l’essere improducibile ce l’ha da sé, appunto perché l’effetto dipende nel suo esistere, mentre l’improducibile non dipende affatto.

Inoltre, la possibilità del producibile non implica necessariamente l’esistenza attuale, mentre tale esistenza é implicata necessariamente nella possibilità stessa dell’improducibile. Ora, una causa non può produrre un effetto incompossibile con qualcosa che esiste già, a meno che tale effetto non riceva dalla propria causa un’esistenza più forte o più salda di quella della cosa già esistente.

57.  Conclusione sesta: la necessità intrinseca [26] dell’esistenza appartiene a una sola natura.

Questa conclusione si prova così: se due nature potessero essere intrinsecamente necessarie, la necessità sarebbe, naturalmente, loro comune. E loro comune sarebbe pure una determinazione essenziale corrispondente alla necessità comune la quale fungerebbe, in qualche modo, da genere, mentre si distinguerebbero in virtù della rispettiva formalità attuale ultima.[27]

Ma da ciò derivano almeno due assurdità: la prima consiste nel fatto che ognuna delle nature sarebbe un essere necessario, anzitutto, in virtù della determinazione comune, che racchiude un grado di minore entità, e non in virtù della formalità diversificante, che racchiude un grado maggiore di attualità. Che se fossero formalmente necessarie anche in virtù della formalità diversificante, allora ciascuna sarebbe doppiamente necessaria, giacché la formalità diversificante non racchiude formalmente la determinazione comune, come la differenza non racchiude il genere.

La seconda assurdità sta nel fatto che nessuna delle due nature sarebbe necessaria in virtù della determinazione comune — la quale, per ipotesi, sarebbe la ragione primaria della loro necessità —, perché nessuna é ciò che é in virtù di quella determinazione, dato che ogni natura è quello che é in virtù della sua formalità ultima. Ma una cosa esiste realmente proprio in virtù di quanto la rende necessaria e non di altro.

Se dicessi che basta la natura comune a far esistere, prescindendo da quella diversificante, allora la natura comune sarebbe attuale in virtù propria e sarebbe anche indistinta. Quindi, sarebbe pure indistinguibile, perché un essere necessario che esiste già non é più in potenza rispetto all’esistenza pura e semplice.

D’altronde, la realtà del genere nella specie rappresenta una autentica realtà rispetto a quella della specie.[28]

58.  Ulteriori prove dell’unicità dell’essere intrinsecamente necessario.

Parimenti: due nature comprese nello stesso genere non hanno lo stesso grado di realtà. Ciò si prova per mezzo delle differenze che specificano il genere. Se queste sono disuguali, è evidente che l’essere d’una natura sarà più perfetto dell’essere dell’altra. Ma nessun essere è più perfetto dell’essere intrinsecamente necessario. (Perciò, questo è unico).

Allo stesso modo: se due nature fossero intrinsecamente necessarie, nessuna delle due esisterebbe in dipendenza dall’altra né, per la stessa ragione, ci sarebbe alcun ordine essenziale tra le due. Ma, allora, una cosa non farebbe parte del nostro universo, giacché in esso non c’è cosa che non rientri nell’ordine essenziale, dato che l’unità dell’universo risulta dall’ordine delle sue parti.

59.  Soluzione delle difficoltà contrarie all’unicità.

Si potrebbe obiettare: ciascuna delle nature fonda un ordine di eminenza rispetto alle parti dell’universo e ciò basta a garantire l’unità dell’universo. Ma bisogna dire che nessuna delle due può fondare un ordine di eminenza rispetto all’altra’, perché l’essere della natura più eminente è più perfetto, mentre nessun essere è più perfetto di quello intrinsecamente necessario. Né la seconda natura potrebbe fondare un ordine con le altre parti dell’universo, giacché in un universo non c’è che un ordine ed è evidente che un solo ordine suppone soltanto un essere primo. Prova ne è il fatto che, se si pongono due nature prime, quella più vicina alla prima non avrebbe soltanto un ordine o una dipendenza, ma due, perché due sarebbero i termini estremi.

Altrettanto si dovrebbe dire d’una natura inferiore. Così, vi sarebbero due ordini primi e, quindi, due universi; o ve n’è uno solo in rapporto ad un unico essere intrinsecamente necessario.

Poiché, però, se si vuol procedere razionalmente, bisogna ammettere nell’universo solo ciò che si impone necessariamente, o ciò la cui esistenza risulta da un certo rapporto con gli esseri evidentemente esistenti — dato che non si devono moltiplicare gli enti senza necessità, come risulta dal primo libro della Fisica [29] —, dobbiamo concludere che l’esistenza dell’essere intrinsecamente necessario nell’universo risulta dall’essere incausabile; che l’essere incausabile risulta, a sua volta, dall’efficiente primo e che questo, infine, si impone a partire dagli effetti.[30] Ma, a partire dagli effetti, non appare alcuna necessità di ammettere più nature efficienti prime. Anzi, appare esattamente il contrario, come vedremo più avanti, nella conclusione decima quinta di questo capitolo.[31] Perciò, non è necessario ammettere più esseri incausati o intrinsecamente necessari. Pertanto, ragionevolmente non si affermano.

60.  Ulteriore programma.

In base alle quattro conclusioni di questo capitolo, relative all’efficiente, ne formulo quattro relative alla causa finale e le dimostro allo stesso modo. La prima è:

61.  Conclusione settima: tra gli enti c’è una causa finale.

Ci può essere qualcosa di ordinato a un fine perché — come risulta dalla dimostrazione della prima conclusione di questo capitolo [32] —, qualcosa può essere prodotto. Questa conseguenza (dalla producibilità d’una cosa alla sua finalizzabilità) è evidente grazie alla quarta conclusione del secondo capitolo.[33] (Perciò, ci può essere qualche causa finale).

La verità è evidente a proposito dell’ordine essenziale più di quanto non lo sia a proposito dell’efficienza, come risulta dalla decima sesta conclusione del secondo capitolo.[34]

62.  Conclusione ottava: c’è una natura finale assolutamente ultima o non ordinabile ad altro fine né finalizzante in virtù d’altro.

La conclusione si dimostra per mezzo di cinque prove simili a quelle della conclusione seconda di questo capitolo.[35]

63.  Conclusione nona: la causa finale ultima è ,incausabile.

Prova: la causa finale ultima non può essere ordinata a un fine, altrimenti non sarebbe assolutamente ultima. Di conseguenza, non può neppure essere prodotta, come risulta dalla quarta conclusione del capitolo secondo.[36]

Per il resto si procede come sopra, nella terza conclusione di questo capitolo.[37]

64.  Conclusione decima: la causa finale ultima esiste attualmente e il primato del fine ultimo appartiene a una natura attualmente esistente.

La dimostrazione è identica a quella della quarta conclusione di questo capitolo.[38] Corollario: tale fine è così ultimo che nessun altro può esserlo di più. Questo corollario si dimostra come quello della quarta conclusione.[39]

65.  Conclusione undecima: fra le nature degli esseri ce né una che eccelle sulle altre.

Prova: è possibile una natura ordinata al fine, come appare dalla settima conclusione di questo capitolo;[40] quindi, è possibile una natura ecceduta, come consta dalla decima sesta conclusione del capitolo secondo.[41]

66.  Conclusione duodecima: c’è una natura eminente assolutamente prima nella perfezione.

Qui l’ordine essenziale è evidente.[42] Secondo Aristotele, infatti, le forme sono come i numeri — Metafisica, libro ottavo,[43] (cioè ciascuna è diversa dall’altra). Ma nell’ordine essenziale è necessario fermarsi a un essere primo, come dimostrano le cinque prove esposte nella seconda conclusione.[44]

67.  Conclusione decima terza: la natura suprema è incausabile.

Dimostrazione: essa, infatti, non può essere ordinata ad un fine, come risulta dalla conclusione decima sesta del capitolo secondo.[45] Né può essere effettuabile, come risulta dalla conclusione quarta dello stesso capitolo [46] e dalla dimostrazione della terza conclusione di questo capitolo.[47]

Inoltre, l’improducibilità della natura suprema è provata anche da B della seconda conclusione di questo capitolo,[48] perché ogni effettuabile possiede una causa essenzialmente ordinata.

68.  Conclusione decima quarta: la natura suprema è attualmente esistente.

Lo si dimostra come la quarta conclusione di questo capitolo.[49] Corollario: che una natura sia pii perfetta della prima o superiore ad essa è inconcepibile. Prova ne è la dimostrazione del corollario della quarta conclusione.[50]

69.  Conclusione decima quinta: il primato di efficienza, di finalità e di eminenza conviene ad un’unica, identica natura esistente in atto.

Questa quindicesima conclusione è il frutto del presente capitolo, perché deriva evidentemente da quanto è stato detto. Deriva, infatti, così evidentemente da quant’è stato dimostrato: se la necessità intrinseca conviene ad una sola natura — come risulta dalla sesta conclusione di questo capitolo [51] — e se la natura cui convengono i primati suddetti è un essere intrinsecamente necessario —, come risulta dalla conclusione quinta [52] e terza [53] per quanto riguarda il primato di efficienza; dalla quinta [54] e dalla nona,[55] per quanto riguarda il primato di finalità e dalle conclusioni quinta [56] e decima terza,[57] per quanto riguarda il primato di eminenza — ne consegue che ognuno di quei primati conviene ad una sola natura.

Poiché, dunque, ciascun primato appartiene attualmente a una natura (come risulta dalle conclusioni quarta,[58] decima [59] e decima quarta [60] ) e non a diverse, ne consegue che appartiene alla medesima natura. Se non fosse così, molte nature sarebbero intrinsecamente necessarie, come risulta dalla seconda affermazione dell’argomento stesso.

70.  L’unicità della natura prima dedotta dalla sua improducibilità.

La conclusione si dimostra anche mediante l’improducibilità dell’essere primo. Questo, infatti, non può essere che unico per natura. Ma ciò che è primo in ognuno dei tre primati è improducibile.

Dunque, ciò che è primo in essi è unico. Prova della maggiore: come potrebbe esistere per sé una moltitudine? [61]

71.  Contenuto della conclusione decima quinta.

Questa conclusione è densa di contenuto. Infatti, contiene virtualmente sei conclusioni: tre relative all’unità della natura cui appartengono i primati suddetti e tre relative all’identità della natura, cui conviene un primato, con la natura cui convengono gli altri, identità dimostrata mediante il mutuo confronto dei primati stessi.

è una conclusione tanto densa di contenuto ed è stata provata solo mediante la sesta conclusione che fece, in qualche modo, da premessa maggiore.

Ma ora, nella misura del possibile, è opportuno formulare esplicitamente la premessa maggiore propria di ciascuna delle sei conclusioni virtualmente contenute nella decima quinta. E per dimostrare le due prime conclusioni (relative al primato di efficienza e di finalità) premetto quest’altra:

72.  Conclusione decima sesta: è impossibile che una stessa cosa dipenda essenzialmente da due esseri, ciascuno dei quali sia causa totale della sua esistenza.

Prova: come è impossibile che una causa produca, in un genere determinato, quello che produce la causa totale, altrimenti lo stesso effetto sarebbe causato due volte o né l’una né l’altra causa sarebbero cause totali — in tal caso ci sarebbe una causa la cui efficacia non influisce sull’effetto perché questo esisterebbe anche se essa non operasse, il che è assurdo —, così è pure impossibile che una stessa cosa dipenda totalmente da due esseri sotto ogni punto di vista, perché non dipenderebbe totalmente da uno se dipendesse, in parte, anche dall’altro.

In tale ipotesi, la cosa dipenderebbe da un essere che potrebbe anche non esistere senza che, per questo, essa cessi di esistere; ma ciò è contrario alla nozione di dipendenza, sempre che si tratti dello stesso ordine di realtà.

Dimostrata questa conclusione, propongo ora quelle virtualmente incluse nella conclusione decima quinta.

73.  Conclusione decima settima: il primato della causalità estrinseca dello stesso genere appartiene ad un’unica natura.

Prova: infatti, se appartenesse a diverse nature, apparterrebbe loro o rispetto agli stessi esseri posteriori o rispetto a diversi. Ma non può appartenere loro rispetto agli stessi, come risulta dalla conclusione decima sesta [62] altrimenti ognuno di essi racchiuderebbe due relazioni di dipendenza dello stesso genere, poiché non si può dare una sola relazione di dipendenza rispetto a due esseri primi.

Né può appartenere loro rispetto a diversi posteriori, perché se vi fosse un essere primo per diversi posteriori, vi sarebbero più universi, dato che i posteriori non sarebbero ordinati né tra loro né rispetto a un essere comune. d’altronde, senza unità d’ordine non c’è unità di universo.

Anzi, Aristotele ritiene che la più grande bontà dell’universo stia proprio nell’unità del fine.[63] E poiché rispetto a un essere sommo vi è un solo ordine, io mi contento di parlare d’un solo universo senza immaginarne un altro, per il quale non ho ragioni favorevoli, ma piuttosto contrarie.[64]

74.  Ragioni probabili per l’unicità dell’Essere Primo.

Aggiungiamo alcune ragioni probabili:[65]

1) quanto più si sale nell’ordine essenziale, tanto più diminuisce il numero degli esseri finché, in ultima analisi, si giunge all’unità. Dunque, è necessario ammettere un solo essere primo.

2) l’efficacia d’una causa superiore abbraccia più effetti. Perciò, quanto più si sale, tanto minore è il numero di cause che si richiede. Dunque, (bisogna fermarsi in una causa prima). Questa ragione chiarisce anche quella seguente.

3) l’unicità del Primo eminente è evidente perché se è impossibile che due nature siano ordinate tra loro nel senso che una non sia superiore all’altra — perché, sotto questo punto di vista, somigliano ai numeri —, sembra ancor più impossibile che due nature si trovino nel medesimo grado primo.

4) Parimenti, rispetto al fine: se ci fossero due fini ultimi, nessuno dei due sarebbe in grado di saziare un essere distinto da loro. Ma, dato che questo è inconcepibile, ne segue l’unicità del fine ultimo.

5) In caso contrario, nessuna natura conterrebbe virtualmente la perfezione di tutte le altre. Ma ciò implica contraddizione perché, nell’ipotesi, non ci sarebbe nessuna natura perfettissima. Anche per le tre conclusioni ci sono prove particolari. Infatti:

75.  Conclusione decima ottava: la causa efficiente prima è sommamente attuale perché contiene virtualmente ogni attualità possibile. Il fine ultimo è sommamente buono perché contiene virtualmente ogni bontà possibile. Il sommo eminente è perfettissimo perché contiene eminentemente ogni perfezione possibile.

Questi tre primati sono fra loro inseparabili perché, se uno di essi appartenesse a una natura e uno a un’altra, nessuna delle nature sarebbe eminente in senso assoluto.

Perciò, tali primati esprimono tre attributi della somma bontà necessariamente convergenti, cioè: la somma comunicabilità, la somma amabilità e la somma integrità o totalità. Infatti, il bene e la perfezione sono identici, in base al libro quinto della Metafisica,[66] come sono identici la perfezione e il tutto, in base al libro terzo della Fisica.[67]

D’altronde, è evidente che il bene è desiderabile — come risulta dal primo libro dell’Etica [68] — e diffusivo, come appare dal sesto libro della Metafisica d’Avicenna.[69] Nulla, infatti, è perfettamente diffusivo tranne l’essere che si comunica per liberalità. E ciò conviene veramente all’Essere sommo perché non attende alcun vantaggio dalla sua comunicazione.[70] Caratteristica, questa, del vero essere liberale, come risulta dal capitolo quinto del sesto libro della Metafisica d’Avicenna.[71]

76.  Conclusione decima nona: un’unica natura esistente è prima rispetto ad ogni altra nel triplice ordine di cui s’è parlato, di modo che ogni altra è posteriore.

Qualche ostinato, pur ammettendo la conclusione decima quinta,[72] potrebbe affermare che, oltre la natura prima, ce ne sono molte altre, non certo prime nello stesso senso, ma neppure posteriori rispetto ad essa secondo ogni ordine suddetto, beni posteriori o secondo l’ordine di eminenza o secondo l’ordine di eminenza e di finalità insieme; non però, secondo l’ordine di efficienza, come alcuni dicono che Aristotele abbia pensato delle Intelligenze diverse dalla Prima e, forse, anche della materia prima.[73]

Orbene, per quanto tale affermazione possa essere confutata mediante quello che è stato detto finora, tuttavia è opportuno sottoporla ad esame particolare.

77.  Confutazione generale dell’ipotesi di due esseri primi.

In primo luogo, l’affermazione precedente è contraddetta dalla sesta conclusione.[74] Infatti, se la necessità intrinseca appartiene a una sola natura e se ciò che non è posteriore in un ordine è un essere intrinsecamente necessario, ne consegue che una sola natura non può essere posteriore sotto qualsiasi punto di vista.

Perciò, ogni altra è posteriore dal punto di vista di tutt’e tre gli ordini suddetti.

La seconda affermazione di quest’argomento (ciò che non è posteriore, è un essere ontologicamente necessario) è evidente in virtù delle conclusioni terza,[75] nona,[76] e decima terza [77] di questo terzo capitolo.

A ciascuna, poi, s’aggiunga la sesta conclusione di questo stesso capitolo.[78]

78.  Confutazione particolare della stessa ipotesi.

In secondo luogo, la conclusione relativa all’unicità dell’Es sere primo si dimostra anche così:

1) in rapporto al fine: ciò che non è né fine né ordinato a un fine è vano. Ma nulla è vano tra gli esseri.[79]

Dunque, ogni natura diversa dal Fine ultimo è ordinata a un fine e, per ciò stesso, è ordinata al Fine ultimo, come risulta dalla terza conclusione del secondo capitolo.[80]

2) In rapporto all’eminenza: ciò che non è supremo né superato da alcun’altra cosa, non possiede alcun grado di realtà. Quindi, è nulla. Di conseguenza, tutto ciò che non è supremo è superato da qualcosa e, per ciò stesso, è superato dall’Essere supremo, come risulta dalla terza conclusione del secondo capitolo.[81]

3) In rapporto all’efficienza: contro chi negasse la conclusione riguardo all’efficienza, quella si dimostra tanto per mezzo del fine quanto per mezzo dell’eminenza.

Per mezzo del fine: ogni essere è o fine ultimo o ordinato al fine, com’è stato dimostrato. Dunque, o è il primo efficiente o è un effetto, perché i termini di questo binomio sono convertibili con quelli del binomio precedente in rapporto alla posteriorità. E tutto ciò risulta evidente per mezzo della quarta [82] e della quinta [83] conclusione del secondo capitolo.

Parimenti, si dimostra per mezzo dell’eminenza. Se un essere è o supremo o ecceduto dall’essere supremo, ne consegue che qualsiasi essere è o il primo efficiente o un effetto perché anche i termini di questo binomio sono convertibili, come risulta dalle conclusione penultima [84] e ultima [85] del secondo capitolo e dalla decima quarta [86] di questo capitolo.

S’aggiunga, poi, che è molto irragionevole affermare un essere privo di ordine, come fu dimostrato per mezzo della seconda prova della sesta conclusione [87] e, in un certo modo, mediante la prova della decima settima conclusione.[88]

79.  Elevazione dell’animo a Dio.

Veramente, o Signore, Tu hai fatto tutte le cose con ordine sapiente [89] affinché ogni intelligenza si rendesse conto che ogni essere è ordinato. Per questo parve assurdo ai filosofanti concepire qualcosa senz’ordine.

Ma da quest’affermazione universale: « ogni essere è ordinato », risulta evidentemente che non ogni cosa è posteriore né ogni essere è anteriore perché, in ambedue i casi, o un essere sarebbe ordinato rispetto a se stesso o si dovrebbe ammettere una circolarità nell’ordine. c’è, quindi, un essere necessariamente anteriore e non posteriore; e c’è pure un essere primo, mentre qualche essere è necessariarente posteriore e, pertanto, non primo.

Ma non c’è essere che non sia né anteriore né posteriore.

Tu sei l’unico Essere Primo e ogni essere distinto da Te è posteriore, come ho dimostrato nella misura delle mie forze, esaminando il triplice ordine (di efficienza, di finalità e di eminenza).



CAPITOLO QUARTO

SEMPLICITÀ, INFINITÀ E SPIRITUALITÀ DEL PRIMO PRINCIPIO

SOMMARIO. — La conoscenza razionale di Dio, oltre la sua esistenza, svela tutta una serie di attributi riguardanti Dio in sé o assoluti. In primo luogo, la semplicità essenziale: Dio non è composto di perfezioni realmente distinte; ogni perfezione che si trova in Dio è formalmente necessaria, ma non esiste indipendentemente dalle altre e ciò perché al limite, l’infinità essenziale d’ognuna risulta un modo di essere che, senza confonderle, tutte le fonde nell’identità assoluta di Dio (S 81, concl. 1).

In virtù di quest’identità, le perfezioni intrinseche della natura divina sono somme, a tal punto da non poter essere eccedute o superate in nessun modo e sotto nessun aspetto (§ 85, concl. 2). Di conseguenza, esse si coesigono tutte simultaneamente, essendo perfezioni pure (§ 86, concl. 3). Tra le perfezioni pure, alla nostra mente si impongono, con particolare evidenza, l’intelletto e la volontà (§ 89, concl. 4), svelandosi il carattere personale de « Il Primo Principio degli esseri », la sua libertà essenziale e, in particolare, il suo modo contingente d’agire in rapporto all’universo (§ 100, concl. 5). Intelletto e volontà, in noi come in Dio, rappresentano perfezioni formalmente distinte. Mentre, però, in noi sono facoltà che si distinguono rispettivamente dalla sostanza, cui appartengono, dall’atto, che pongono, e dall’oggetto, cui terminano, in Dio si identificano realmente e con la sostanza e con l’atto e con l’oggetto, sicché: intelligenza, intellezione e intelletto; volontà, volizione e voluto, in Dio, sono la stessa cosa, cioè sono Dio stesso (§§ 103, 108, concl. 6, 7). Per tale motivo, conoscendo se stesso, l’intelletto divino conosce anche tutte le cose possibili in atto, sempre, necessariamente e distintamente, prima che esse siano poste in atto (§ 113, concl. 8). Tutte le perfezioni divine, di natura infinite, convergono verso l’infinità intesa non come una nuova perfezione, ma come il modo intrinseco di esse proprio perché modo intrinseco dell’essere stesso di Dio (§ 116, concl. 9). l’infinità divina appare attraverso il conoscere divino, la conoscibilità dell’essenza divina, la sostanzialità del conoscere divino, la semplicità essenziale, il carattere supremo dell’essere divino, ecc. Dall’infinità, poi, rimane confermata la semplicità essenziale che esclude qualsiasi determinazione accidentale e si presenta, pertanto, come semplicità assoluta (S 147, concl. 10). Infinito e assolutamente semplice, Dio non può essere che numericamente uno (§ 157, concl. 11). Così, al termine del suo itinerario, la ragione umana, senza l’aiuto della rivelazione, conosce con certezza l’esistenza dell’Essere infinito, intelligente e libero, uno ed unico, « provvidente per tutte le creature, specialmente per quelle intellettuali ». Più oltre, da sola, la ragione non può andare nella conoscenza di Dio. Solo la rivelazione può consentirle di avanzare, ma allora essa varca la soglia della filosofia per entrare nella sfera della teologia.


CAPITOLO QUARTO

SEMPLICITÀ, INFINITÀ E SPIRITUALITÀ DEL PRIMO PRINCIPIO

80.  Elevazione dell’animo a Dio.

Signore, Dio nostro, con il tuo aiuto vorrei. dimostrare le perfezioni che — ne sono certo — appartengono alla tua natura unica e veramente prima.

Credo che sei semplice, infinito, sapiente e dotato di volontà.

Ora, per non cadere in un circolo vizioso durante la dimostrazione, formulerò anzitutto alcune conclusioni riguardanti la semplicità, conclusioni che si possono dimostrare subito; le altre, pure riguardanti la semplicità, saranno rinviate fino al momento in cui possono essere dimostrate. Pertanto, la prima conclusione da dimostrare di questo capitolo è la seguente:

81.  Conclusione prima: la natura prima è essenzialmente semplice.[1]

Ho detto essenzialmente perché qui mi riferisco soltanto alla semplicità essenziale, cioè a quella che esclude in maniera assoluta qualsiasi composizione dell’essenza.

Ora, tale conclusione si dimostra così: la prima natura non è causata, come risulta dalla terza conclusione del terzo capitolo.[2]

Quindi, non possiede parti essenziali, ossia materia e forma, come non possiede perfezioni diverse o, comunque, realmente distinte, dalle quali si possano desumere le nozioni di genere e di differenza specifica. E ciò si dimostra mediante la prima prova della sesta conclusione del terzo capitolo.

Infatti, o una delle suddette perfezioni renderebbe l’essere assolutamente necessario o l’altra non sarebbe necessaria né immediatamente né per sé — e, in tal caso, dal momento che la perfezione non necessaria è essenzialmente inclusa nel tutto, questo non sarebbe più un essere necessario, includendo qualcosa di non necessario dal punto di vista formale —, oppure il tutto sarebbe immediatamente necessario in virtù di ambedue le realtà — e, in tal caso, sarebbe doppiamente necessario e avrebbe originariamente due entità, nessuna delle quali include essenzialmente l’altra.[3]

Parimenti, le perfezioni non sarebbero due, (ma una), perché se ognuna costituisse immediatamente l’essere necessario, ognuna sarebbe l’attualità ultima e così o non costituirebbe un essere o bisognerebbe dire che non si differenziano tra loro, che noti sono due (ma una), cioè che la natura prima è semplice.

82.  Corollario.

La natura prima non cade sotto alcun genere,[4] come risulta chiaramente dal ragionamento precedente. Ma questo si può anche dimostrare, poiché una natura che cade sotto un genere è compiutamente espressa mediante la definizione in cui genere e differenza non indicano la stessa cosa altrimenti si tratterebbe d’una ripetizione inutile.

Ma nella natura essenzialmente semplice tutto è assolutamente identico. (Perciò la natura prima non cade sotto alcun genere).

83.  Difficoltà contro la dimostrazione della semplicità essenziale.

Si osserverà, qui, che se una cosa può essere necessaria solo in virtù d’una delle realtà in essa presenti — e, in questo caso, l’altra realtà non sarebbe necessaria, altrimenti l’essere sarebbe doppiamente necessario —, ne consegue che in un essere necessario non possono darsi realtà distinte secondo la loro nozione formale e neppure essenza e relazione possono trovarsi nella persona divina.[5]

Dal momento, però, che la conseguenza è falsa, bisogna concludere che la prova precedente è difettosa.

Allo stesso modo si può arguire contro la seconda prova secondo la quale o ciascuna delle realtà sarebbe l’attualità ultima, o una di esse non sarebbe necessaria.

Soluzione delle difficoltà.

Rispondo: quando si tratta di entità distinte in virtù delle rispettive nozioni formali — come l’atto e la potenza quando siano compatibili, o come due entità destinate ad attuare il medesimo essere —, se una di esse è infinita, può includere l’altra per identità e di fatto la include; qualora ciò non avvenisse, l’infinito potrebbe entrare in composizione (e fungere da parte), ma ciò è escluso dalla nona conclusione di questo capitolo.[6]

Ma se una di esse è finita, questa non può includere per identità una che è originariamente diversa in virtù della propria nozione formale precisamente perché la prima entità finita è perfezionabile dalla seconda e può entrare in composizione con essa.

Perciò, se si afferma che l’essere necessario possiede due realtà e. che nessuna di esse contiene l’altra per identità — condizione, questa, per la composizione —, ne risulta o che una di esse non è necessaria né dal punto di vista formale né per identità, o che il tutto sarà doppiamente necessario.

Quindi, ambedue le prove sono buone.

84.  La difficoltà concernente la persona divina.

L’obiezione concernente la persona divina è senza consistenza perché le due realtà — essenza e relazione — non dànno luogo a una composizione in essa, ma si identificano tra loro perché una è infinita.[7]

Se si sostiene che proprio in questo senso ha luogo la composizione nell’essere necessario, in cui ci sono due realtà, perché una di esse è infinita; ebbene, allora ci si contraddice doppiamente: in primo luogo, perché l’infinito non può entrare in composizione con un’altra realtà, perché la parte è minore del tutto; in secondo luogo, perché se si ammette composizione, nessuna delle due realtà è l’altra per identità.

Quindi, ambedue le prove sono buone..

85.  Conclusione seconda: tutto ciò che è intrinseco alla natura prima, è sommo.

Prova: infatti, come risulta dalla conclusione precedente, tutto ciò che è intrinseco alla natura somma, si identifica assolutamente con essa in virtù della sua semplicità.

Quindi, dato che essa è somma, sommo sarà pure tutto ciò che le è intrinseco. d’altronde, se fosse concepibile che qualcosa di intrinseco alla natura somma può essere ecceduto in entità, si potrebbe concepire che possa esserlo anche la stessa natura somma, dato che la sua entità è identica all’entità di ciò che le è intrinseco.

86.  Conclusione terza: ogni perfezione pura [8] appartiene necessariamente e in sommo grado alla natura somma.

Si chiama perfezione pura quella che, in ogni essere, è migliore del suo contrario o della propria negazione.

Questa descrizione sembra priva di senso perché se viene intesa, come suona, dell’affermazione e della negazione considerate in se stesse, non è certo che l’affermazione sia sempre migliore della negazione correlativa; è migliore, invece, in sé e nell’essere in cui può trovarsi.

Se, poi, viene intesa non solo in sé e in rapporto all’essere in cui può trovarsi, ma anche rispetto a qualunque essere in senso assoluto, allora è falsa.

Infatti, la sapienza non è migliore della propria negazione in un cane perché essa non rappresenta alcuna bontà nell’essere la cui natura l’esclude assolutamente.

Rispondo: la descrizione è celebre. Le parole ‘migliore del suo contrario’ significano che la perfezione pura è migliore di qualsiasi altra perfezione inconciliabile con essa, d’una perfezione cioè che racchiude il suo contrario o la negazione di essa.

In questo senso, dico, è migliore ‘in ogni essere’ — non per ogni essere, ma in ogni essere —, appunto perché è migliore della determinazione opposta che le impedirebbe di esistere.

Diciamo, dunque, brevemente: la perfezione pura è quella che, assolutamente parlando, è migliore di qualsiasi altra perfezione opposta ad essa.

E l’espressione ‘in ogni essere la perfezione pura è migliore del suo contrario’ va intesa nel senso che in ogni essere è migliore del proprio contrario.

Il resto non mi interessa. Ritengo, quindi, il significato chiaro, determinato fin dall’inizio di questo paragrafo. l’inconciliabilità, poi, va intesa secondo la predicazione denominativa [9] perché tale è il senso del linguaggio corrente.

87.  Dimostrazione della terza conclusione.

Dimostriamo, ora, la terza conclusione [10] così precisata: una perfezione pura si trova, rispetto a tutto ciò che è inconciliabile con essa, in rapporto di nobiltà, per cui non è qualcosa di inferiore, ma qualcosa di superiore.

Di conseguenza, o è inconciliabile con la natura suprema — e, per ciò stesso, è superiore ad essa —, o è conciliabile con essa e, quindi, può trovarsi in essa anche in grado sommo, perché la perfezione pura è sommamente conciliabile, se all’essere in cui si trova non ripugna il grado supremo.

Ora, la perfezione pura non si trova nella natura prima come un accidente contingente.[11] Perciò, vi si trova o come identica o, almeno, come un attributo proprio.

In tal modo rimane dimostrato che la perfezione pura esiste necessariamente nella natura prima.

88.  Identità essenziale tra perfezione pura e natura prima.

Che non si trovi in essa contingentemente come l’accidente opposto alla proprietà appare evidente perché — trattandosi d’una perfezione cui non ripugna la necessità — l’essere che la possiede necessariamente, la possiede in maniera più perfetta dell’essere che la possiede contingentemente.

Ma alla perfezione pura non ripugna la necessità, altrimenti sarebbe ecceduta da una perfezione opposta che è o può essere necessaria. d’altra parte, nessun essere può possedere una perfezione pura in maniera più perfetta della natura prima, come risulta dalla seconda conclusione di questo capitolo.[12]

Perciò, la natura prima la possiede necessariamente.

Prima di trattare dell’infinità e delle altre verità connesse con la semplicità del Primo Principio, tratterò del suo intelletto e della sua volontà perché la loro conoscenza sarà presupposta dalle conclusioni ulteriori.

La prima conclusione che riguarda e l’uno e l’altro è la seguente.

89.  Conclusione quarta: il Primo efficiente è dotato di intelletto e volontà.

Prova: il Primo efficiente è una causa per sé, perché tale causa è anteriore rispetto ad ogni causa accidentale, come si dice nel secondo libro della Fisica.[13]

Ma ogni causa per sé opera per un fine. Ora, questo fatto consente di ragionare in due modi.

Primo: ogni causa naturale considerata come tale agirebbe in maniera necessaria e sempre allo stesso modo anche se non agisse per un fine, supposto che si comportasse come causa indipendente.[14]

Ma se non agisce che per un fine, vuol dire che essa dipende da una causa che ama il fine (cioè da un agente dotato di intelligenza e volontà).

Secondo: se il Primo efficiente opera per un fine, vuol dire o che è mosso da un fine da lui amato con un atto di volontà — e allora è evidente che il Primo efficiente è dotato di volontà —, o è mosso da un fine che ama come ama una natura.

Ma questa seconda ipotesi è sbagliata, perché il Primo efficiente non ama naturalmente un fine diverso da sé, come un corpo pesante ama naturalmente il centro della terra o come la materia ama la forma, altrimenti sarebbe, in qualche modo, subordinato al fine cui tende.

Dire che ama naturalmente solo il fine che è Lui stesso, significa semplicemente affermare che è identico a se stesso, ma questo non salva in Lui il duplice carattere di causa (efficiente e finale).[15]

90.  Seconda dimostrazione della conclusione.

Il Primo efficiente dirige il proprio effetto verso il fine. Ora, ve lo dirige o naturalmente o per amore del fine. Ma non può dirigerlo naturalmente, perché un essere privo di conoscenza guida solo in virtù d’un altro essere dotato di conoscenza — l’ordinamento fondamentale è opera del sapiente [16] —, quindi il Primo efficiente non dirige e neppure produce in virtù d’un altro essere.[17]

91.  Terza dimostrazione della conclusione.

Qualcosa è prodotto contingentemente. Quindi, la Causa prima produce contingentemente, e, perciò, in maniera volontaria.[18]

Prova della prima conseguenza: ogni causa seconda produce in quanto è mossa dalla Prima. Quindi, se la Prima movesse necessariamente, ogni causa seconda sarebbe mossa necessariamente e ogni effetto sarebbe prodotto necessariamente.

Prova della seconda conseguenza: solo la volontà o qualcosa che accompagna la volontà è principio operativo contingente; ogni altra causa opera per necessità di natura e, quindi, non contingen temente.[19]

92.  Difficoltà contro la terza dimostrazione della conclusione.[20]

1) Contro la prima conseguenza si osserva che il nostro volere potrebbe produrre lo stesso qualcosa di contingente.

2) Si osserva, inoltre, che il Filosofo ammise l’antecedente, ma negò il conseguente riguardo al volere divino, attribuendo la contingenza agli esseri o alle cause inferiori in virtù del movimento. Questo, infatti, è prodotto necessariamente in quanto è uniforme, ma è contingente in quanto è difforme, cioè in quanto si trova nelle sue parti o negli esseri inferiori.[21]

3) Contro la seconda conseguenza si osserva che alcune cose mosse possono essere impedite nel loro movimento e così può verificarsi contingentemente l’opposto del loro movimento.

93.  Soluzione delle difficoltà precedenti.

1) Alla prima obiezione si deve rispondere che se esiste un Efficiente Primo rispetto alla nostra volontà, bisogna dire di questa ciò che abbiamo detto degli altri effetti. Infatti, sia che il Primo efficiente la muova in maniera immediata e necessaria, sia che muova immediatamente un altro essere e questo, mosso necessariamente, muova a sua volta in maniera necessaria — appunto perché muove in quanto è mosso — in ultima analisi, l’efficiente prossimo muoverà la volontà necessariamente e questa vorrà pure necessariamente.

Da ciò risulta un’altra assurdità, cioè che produce necessariamente ciò che produce volontariamente.[22]

2) A proposito della seconda difficoltà, si osservi che non chiamo, qui, contingente quanto non è necessario né eterno, ma ciò il cui opposto può attuarsi nel momento in cui esso si realizza di fatto.

Proprio per questo ho detto ‘qualche cosa è prodotta contingentemente’ e non ‘qualcosa è contingente’.[23]

Ciò detto, affermo che il Filosofo non potè ammettere l’antecedente e negare la conseguenza, pensando di giustificare la contingenza per mezzo del movimento. Infatti, se il movimento deriva dalla propria causa necessariamente, anche ogni sua parte è causata necessariamente, cioè in maniera inevitabile, di modo che il loro opposto non potrebbe affatto realizzarsi.

In questo caso, poi, ciò che è prodotto per mezzo di qualsiasi parte del movimento, è prodotto necessariamente, cioè inevitabilmente. Pertanto, o nulla avviene contingentemente, cioè in maniera evitabile, o il Primo efficiente opera anche immediatamente in maniera tale da poter pure non produrre.

3) Per la terza obiezione, si noti che se una causa può impedire l’operazione di un’altra, lo può in virtù di una causa superiore e così di seguito fino alla Causa Prima. Se poi questa muove necessariamente la causa con cui è in contatto immediato, si avrà la necessità in tutta la serie delle cause fino a quella impediente che, di conseguenza, impedirà necessariamente.

94.  Quarta dimostrazione della conclusione.

C’è del male nel mondo.[24] Quindi, il Primo efficiente agisce contingentemente, cioè volendo.

Prova della conseguenza: ciò che agisce per necessità di natura, agisce secondo il massimo della sua potenza producendo così tutta la perfezione di cui è capace. Quindi, se il Primo efficiente e tutta la serie delle cause seconde agiscono necessariamente, ne risulterà che l’effetto avrà tutto ciò che può ricevere, sicché non sarà privo di nessuna delle perfezioni di cui è capace e non avrà alcun male.

Le conseguenze sono chiare, perché qualsiasi perfezione di cui è capace l’effetto è producibile da una o da tutte le cause ordinate.

In particolare, l’ultima conseguenza (non vi sarebbe alcun male nell’effetto) è evidente in base alla nozione del male e vale tanto per il male morale quanto per il male fisico.

Si dirà che il male dipende dalla resistenza della materia. Ma l’osservazione non prova nulla perché una causa potente vincerebbe ogni resistenza.

95.  Quinta dimostrazione della conclusione.[25]

La conclusione si può dimostrare anche in un quinto modo, osservando che il vivente è migliore di qualsiasi essere privo di vita e che, fra i viventi, quello dotato di intelligenza è migliore di tutti quelli che ne sono privi.

96.  La dimostrazione fondata sulle perfezioni pure.

Alcuni vorrebbero dimostrare la quarta conclusione con un sesto argomento, fondato sulla terza conclusione.[26] A loro giudizio, infatti, il conoscere, il volere, la sapienza, l’amore sono evidentemente perfezioni pure. Ma non si vede perché siano perfezioni pure il conoscere, il volere ecc., e non lo sia, per esempio, la natura del primo angelo.

Infatti, se consideri la sapienza come attributo, essa è migliore d’ogni altro attributo opposto, ma non hai dimostrato che il Primo efficiente sia sapiente. Si ha, quindi, un circolo vizioso.[27]

Tutt’al più, prescindendo dal Primo efficiente, si può concludere che il sapiente è migliore di chi è privo della sapienza.

In questo senso, anche il primo angelo è migliore d’ogni essere dal quale si desuma un attributo incompatibile con l’angelo, prescindendo da Dio.

Anzi, l’essenza del primo angelo, astrattamente considerata, può essere migliore della sapienza, in un certo senso.[28]

97.  Difficoltà varie.

Dirai che tale essenza è opposta a quella di molti esseri, per cui non può esser considerata come attributo migliore del suo opposto per ogni essere. Tuttavia, rispondo che neppure la sapienza, come attributo, è migliore per ogni essere; anzi, è incompatibile con la natura di molti.

Insisterai dicendo che la sapienza sarebbe migliore per ogni essere se potesse trovarsi in ognuno, perché, ad esempio, il cane sarebbe migliore se fosse sapiente.

Allora rispondo che, in tal modo, il primo angelo sarebbe migliore se fosse cane e il cane sarebbe migliore se fosse il primo angelo.

98.  Soluzione delle difficoltà.

Se replicassi che questa distruggerebbe la natura del cane, per cui non è bene per il cane essere il primo angelo. Bene! - risponderei —, ma anche la sapienza distrugge la natura del cane.

La differenza sta solo nel fatto che la natura dell’angelo distrugge quella del cane nella stessa linea (come una sostanza ne distrugge un’altra), mentre la sapienza la distrugge come un’entità d’ordine diverso. Ma anche la sapienza è incompatibile con il cane perché richiede come soggetto una sostanza opposta a quella del cane.

Ora, un essere che si oppone immediatamente a una forma sostanziale, si oppone pure, anche se non immediatamente, a una proprietà di quella forma.

— Si noti, tra parentesi, che il linguaggio comune riguardante la perfezione pura è spesso difettoso —.

99.  Soluzione delle difficoltà.

Inoltre, la spiritualità sembra indicare il grado supremo d’un genere determinato, cioè delle sostanze. Da che cosa si concluderà che è una perfezione pura? Il problema sarebbe diverso se si trattasse delle proprietà trascendentali dell’essere perché queste appartengono ad ogni essere o come proprietà trascendentali o come attributi disgiuntivi.

Del resto, se un ostinato affermasse che ogni attributo primo di qualsiasi genere supremo è una perfezione semplice, come lo confuteresti? Egli direbbe, infatti, che ogni attributo così fatto è migliore di tutti gli altri ad esso opposti, perché gli altri sono, sì, attributi del medesimo genere supremo, ma sono inferiori rispetto ad esso.

La stessa cosa, del resto, si potrebbe dire degli esseri determinati da tali attributi, almeno nella misura in cui ne sono determinati.

Che se l’attributo primo è determinato dalla sostanza, allora esso si appropria ciò che vi è di più nobile; se, invece, non ne è determinato, bisogna riconoscere, almeno, che ogni soggetto, che ne è determinato, è migliore di qualsiasi altro, determinato da un attributo incompatibile con il primo.[29]

100.  Conclusione quinta: il Primo efficiente produce contingentemente quanto produce.

Infatti, ciò che il Primo produce immediatamente, lo produce contingentemente come risulta dalla terza prova della con clusione precedente.[30]

Quindi, produce contingentemente anche ogni effetto, perché il contingente non precede naturalmente il necessario, né il necessario dipende dal contingente.

Un’altra prova della conclusione si può fondare sulla volizione del fine. Infatti, è voluto necessariamente solo quanto è indispensabile in relazione al fine voluto. Ora, Dio ama se stesso come fine e tutto ciò che ama di se stesso può esserci senza che nulla esista fuori di Lui, perché ciò che è intrinsecamente necessario non dipende da nulla.

Quindi, volendo il fine, non vuole nient’altro in maniera necessaria, né produce necessariamente alcun’altra cosa.

101.  Difficoltà relative alla cooperazione tra Causa prima e cause seconde.

Prima difficoltà: l’atto con cui Dio vuole un altro essere è identico a Lui; perciò, è necessario e non contingente.

Seconda difficoltà: se vale la terza prova della conclusione precedente,[31] su cui questa si basa, bisogna concludere che non esiste alcuna contingenza nell’operazione delle cause seconde a meno che non ce ne sia nel volere del Primo Principio.

Infatti, come il volere necessario del Primo Principio implica l’operare necessario d’ogni altra causa, così la determinazione del suo volere implica la determinazione dell’operare d’ogni altro essere. Ma la determinazione del Primo Principio è eterna. Quindi, ogni causa seconda è determinata prima di attuarsi e non ha in suo potere la facoltà di determinarsi liberamente.

La difficoltà si può approfondire anche di più. Infatti, se la causa seconda ha il potere di determinarsi liberamente, allora con la determinazione della volontà della Causa Prima coesiste l’indeterminazione dell’operazione della causa seconda, dato che questa non ha il potere di rendere indeterminata la Causa Prima.

Ora, se con la determinazione della Causa Prima coesiste l’indeterminazione della causa seconda, sembra pure che con la necessità della Causa Prima possa coesistere la contingenza della causa seconda.

Dunque, o la terza prova non vale, o la nostra volontà non è libera.

Terza difficoltà: se la Causa Prima, in sé determinata, determina gli altri esseri, come si spiega che la nostra volontà possa peccare? Come può, cioè, una causa seconda decidere, in qualche modo, il contrario di ciò che deciderebbe la Causa Prima se decidesse effettivamente?

Quarta difficoltà: ogni operazione sarà contingente perché dipende dall’efficienza del Primo Principio, la quale è appunto contingente.[32]

102.  Risposta e rinvio.

Queste difficoltà sono veramente difficili e la loro spiegazione, chiara ed esauriente, richiede l’esposizione di molte cose. Per queste, tuttavia, rinvio alla questione intorno alla conoscenza che Dio ha dei futuri contingenti, che ho discusso altrove.[33]

103.  Conclusione sesta: l’atto con cui la natura prima si ama, si identifica con essa.

Prova: l’influsso della causa finale è assolutamente primo, come risulta dalla quarta conclusione del secondo capitolo.[34]

Quindi, l’influsso del fine ultimo è assolutamente incausabile, sotto ogni punto di vista.

Ma l’influsso del fine ultimo consiste nel ‘muovere il Primo efficiente’ per il quale è oggetto d’amore, ciò che equivale a dire che il Primo efficiente ama il fine ultimo. Infatti dire che l’oggetto è amato dalla volontà e dire che la volontà ama l’oggetto, è lo stesso.

Perciò, l’atto con cui la Natura prima ama il fine ultimo è assolutamente improducibile e, quindi, intrinsecamente necessario, come risulta dalla quinta conclusione del terzo capitolo.[35]

Quindi, sarà anche identico alla Natura prima, come risulta dalla sesta conclusione dello stesso capitolo.[36]

Questa deduzione si evidenzia nella decimaquinta conclusione del terzo capitolo.[37]

104.  Seconda dimostrazione della conclusione

La deduzione si può compiere anche in altro modo, che però si riduce a quello precedente: se l’atto con cui il Primo Principio ama se stesso fosse distinto dalla Natura prima, allora sarebbe causabile, come risulta dalla conclusione decimanona del terzo capitolo;[38] e, quindi, sarebbe anche effettuabile, come appare dalla quinta conclusione del secondo capitolo,[39] e effettuabile da una causa efficiente per sé, come risulta dalla prova della quarta conclusione di questo capitolo,[40] e da una causa che ama il fine, come risulta dalla stessa prova.

Perciò, l’atto con cui il Primo Principio si ama sarebbe causato da un atto d’amore previamente causato dal fine, il che è impossibile.[41]

Aristotele dimostra questa verità a proposito dell’atto conoscitivo nel dodicesimo libro della Metafisica:[42] se quest’atto non fosse identico alla Natura del Primo Principio — egli dice — esso non sarebbe la sostanza migliore, perché la sua nobiltà si fonda sull’atto conoscitivo.

Inoltre, sempre secondo Aristotele, la conoscenza prolungata sarebbe faticosa per il Primo Principio perché, se non si identificasse con il proprio atto conoscitivo, ma fosse in potenza rispetto ad esso, l’attuazione della potenza gli sarebbe faticosa.

105.  Approfondimento delle ragioni precedenti.

Queste ragioni si possono ulteriormente chiarire e approfondire. Approfondimento della prima: poiché la perfezione suprema d’un essere in atto primo — soprattutto quando si tratta d’un essere dotato non solo d’attività transitiva, ma anche d’attività immanente [43] consiste nell’atto secondo per mezzo di cui si unisce all’essere ottimo; poiché, inoltre, ogni essere spirituale è attivo e la Natura Prima è spirituale, come risulta dalla prima parte della quarta conclusione,[44] ne risulta che la perfezione suprema di detta Natura consiste precisamente nell’atto secondo.

Ora, se non si identificasse con il suo atto secondo, non sarebbe ottima e la sua perfezione deriverebbe da qualcosa di distinto da essa.

Approfondimento della seconda: la potenza esclusivamente recettiva è potenza di contraddizione.[45] Perciò, (la sua attuazione implica fatica). Tuttavia a giudizio d’Aristotele, quest’ultima ragione non è una vera dimostrazione, ma solo un argomento probabile. Proprio per questo egli inizia dicendo: « è ragionevole... ».[46]

106.  Dimostrazione inefficace.[47]

Si vorrebbe dimostrare la conclusione anche mediante l’identità esistente tra la potenza e l’oggetto, deducendone la loro identità anche con l’atto.

Ma la conseguenza non tiene. Si pensi, infatti, al caso dell’angelo che conosce e ama se stesso senza che l’atto, con cui si conosce e si ama, si identifichi con la sua sostanza.

107.  Corollari.[48]

Questa conclusione è ricca di corollari. Anzitutto da essa risulta che la volontà è identica alla Natura Prima. Infatti, il volere altro non è che un atto della volontà; perciò, quest’ultima è incausabile (e, quindi, intrinsecamente necessaria e identica alla Natura Prima).

Parimenti, l’atto di volontà si concepisce come, in qualche modo, posteriore rispetto alla volontà, e, tuttavia, è identico alla Natura Prima; tanto più, dunque, con tale natura si identificherà la volontà stessa.

In secondo luogo, dalla conclusione risulta pure che la conoscenza che la Natura Prima ha di sé si identifica con essa, perché l’amore suppone la conoscenza.

Perciò, quella conoscenza è intrinsecamente necessaria (incausabile e identica alla Natura Prima). Parimenti, la medesima conoscenza è, in certo senso, più vicina alla Natura prima del volere.

(A maggior ragione, dunque, si identificherà con essa).

In terzo luogo, dalla medesima conclusione deriva pure che anche l’intelletto si identifica con la Natura Prima. E lo si dimostra ragionando come s’è fatto della volontà e del volere.

Infine, risulta che l’idea con cui si conosce si identifica con essa, perché è intrinsecamente necessaria e, in un certo senso, logicamente anteriore rispetto all’intenzione.

108.  Conclusione settima: nessuna conoscenza può essere accidentale nella Natura Prima.

Dimostrazione: s’è già dimostrato, infatti, che la Natura Prima è il Primo efficiente; perciò, ha in sé quanto occorre per produrre qualsiasi effetto possibile, escluso ogni concorso, almeno in quanto è causa prima d’un effetto.

Ma senza conoscerlo, non può produrlo. Quindi, la sua conoscenza d’ogni altra cosa non è diversa da essa.

Che non possa produrre un effetto senza prima conoscerlo, è chiaro perché nessun essere può causare se non per amore d’un fine.

Diversamente l’agente non sarebbe una causa per sé, non operando per un fine. Ma prima di voler qualcosa bisogna logicamente averne la conoscenza. Quindi, prima di voler o di produrre A, deve necessariamente conoscerlo.

Senza tale conoscenza non , può produrre, per sé, né A né gli altri effetti.

109.  Seconda dimostrazione della conclusione.

Inoltre, tutte le conoscenze dello stesso intelletto hanno con esso una stessa relazione, identificandosene o essenzialmente o accidentalmente. La cosa è chiara in rapporto ad ogni intelletto creato, perché le sue conoscenze sono tutte perfezioni dello stesso genere; perciò, se alcune sono passive, passive saranno pure tutte le altre.

Così pure, se una è accidentale, accidentali saranno pure le altre.

Ma la conoscenza del Primo Principio non può essere accidentale, come risulta dalla conclusione precedente;[49] quindi, non lo sarà nessuna.

110.  Terza dimostrazione della conclusione.

Se una sua conoscenza potesse essere accidentale, sarebbe ricevuta dal suo intelletto come dal proprio soggetto. Ora, la stessa cosa si verificherebbe anche della conoscenza che si identifica con essa ed è più perfetta. Questa sarebbe, allora, potenza passiva rispetto a una conoscenza accidentale meno perfetta.[50]

111.  Quarta dimostrazione della conclusione.

Una stessa conoscenza può aver diversi oggetti ordinati e, quanto più la conoscenza è perfetta, tanto maggiore sarà il numero degli oggetti che abbraccia. Quindi, la conoscenza più perfetta possibile abbraccerà, nella sua unità, tutti gli oggetti intelligibili.

Ma la conoscenza del Primo Principio è la più perfetta possibile, come risulta dalla seconda conclusione Idi questo capitolo.[51]

Dunque, essa è la stessa in rapporto a tutti gli oggetti conoscibili e tutto ciò che abbraccia si identifica con il Primo Principio, come risulta dalla conclusione precedente.[52]

Perciò (non può essere accidentale). La stessa conclusione vale anche per l’atto di volontà.

112.  Due prove senza valore dimostrativo.

Per provare la conclusione si adducono anche altre ragioni. Prima: l’intelletto del Primo Principio non è che un certo conoscere e poiché esso è lo stesso per tutti gli oggetti, e non diverso per i diversi oggetti, anche il conoscere sarà lo stesso per tutti, senza essere diverso per i diversi oggetti.

Ma bisogna dire che questo ragionamento non vale. Infatti, è un equivoco [53] dedurre, dall’identità di alcune cose tra loro, la loro identità con una terza, cui sono estranee. Per esempio, dal fatto che la conoscenza divina si identifica con il volere divino non si può dedurre che la conoscenza d’una cosa sia anche la volontà di essa.

L’unica conseguenza che si può ricavare da quel fatto, è che la conoscenza è anche un volere, e poiché il volere è dello stesso essere come lo è la conoscenza, l’inferenza si può fare separatamente a motivo della connessione accidentale, ma non congiuntamente.

Seconda: l’intelletto del Primo Principio ha un atto proporzionato al suo essere e coeterno a se stesso perché la conoscenza che ha di sé si identifica con Lui. Quindi, non può avere altri atti.

Anche qui bisogna osservare che la conseguenza non vale. Prova ne è il caso del beato che contempla, nello stesso tempo, Dio e le altre cose: egli, infatti, pur vedendo Dio secondo il massimo della sua capacità, può nondimeno conoscere altre cose, come si afferma dell’anima di Cristo.[54]

Terza: l’intelletto divino possiede, identificandosene, la massima perfezione del conoscere. Dunque, possiede pure ogni altra perfezione conoscitiva.

Neppure qui la conseguenza tiene, perché un’altra perfezione conoscitiva, minore della suprema, potrebbe essere producibile e, conseguentemente, distinguersi da quella suprema, che è impro ducibile.

113.  Conclusione ottava: l’intelletto del Primo Principio conosce in atto, sempre, necessariamente e distintamente ogni intel ligibile, prima che questo esista in se stesso.

Dimostrazione della prima parte (l’intelletto divino conosce in atto, sempre, necessariamente e distintamente ogni intelligibile): esso, infatti, può conoscere in tal modo ogni oggetto intelligibile, perché il poter conoscere e il conoscere in atto rappresentano una perfezione dell’intelletto; anzi, quel potere è necessariamente legato alla natura dell’intelletto perché ogni intelletto ha come oggetto l’essere preso nel senso più vasto del termine, come ho spiegato altrove.[55]

D’altra parte, l’intelletto del Primo Principio non può avere una conoscenza che non si identifichi con Lui, come risulta dalla conclusione precedente.

Perciò, esso possiede una conoscenza attuale e distinta d’ogni intelligibile, conoscenza che si identifica con il Primo Principio stesso.

Sempre la prima parte della conclusione si può dimostrare anche per il fatto che l’artefice perfetto conosce distintamente tutto ciò che può fare prima di operare, altrimenti non agirebbe perfettamente, perché la conoscenza è la norma del suo operare.

Perciò, Dio possiede la conoscenza attuale e distinta, o almeno abituale, di tutte le cose, che può produrre, prima di produrle.

Contro questo ragionamento si osserva che basta l’arte universale per produrre gli esseri singoli.[56]

114.  Prova della seconda parte della conclusione.

L’anteriorità della conoscenza del Primo Principio rispetto all’esistenza delle cose conosciute si deduce dal fatto che tutto ciò che si identifica con il Primo Principio è intrinsecamente necessario, come risulta dalla conclusione quinta [57] del terzo capitolo e dalla prima del quarto,[58] mentre l’essere degli intelligibili distinti da Lui non è necessario, come risulta dalla sesta conclusione del terzo capitolo.[59]

Ora, ciò che è intrinsecamente necessario è, per natura, anteriore rispetto a ciò che non è intrinsecamente necessario.

115.  Conoscenza e causalità.

L’esistenza d’ogni essere distinto dal Primo Principio dipende da Lui come da sua causa, come risulta dalla conclusione decimanona del capitolo terzo.[60]

Ma ogni causa d’un essere determinato, come tale, ha necessariamente in se stessa la conoscenza di esso. Perciò, la conoscenza che l’intelletto ha delle cose è, per natura, anteriore alla loro esistenza.

O profondità delle ricchezze della tua sapienza e della tua scienza,[61] o Dio, in viri delle quali comprendi ogni intelligibile!

Potrai forse, far comprendere alla mia piccola intelligenza:

116.  Conclusione nona: che Tu sei infinito e incomprensibile da un essere finito?

Cercherò di ricavare una conclusione molto densa di significato, una conclusione che se fosse stata dimostrata fin dall’inizio —, avrebbe facilmente chiarito la maggior parte delle conclusioni precedenti. Se me lo concedi, cercherò, dunque, di inferire la tua infinita cominciando da quanto è stato detto a proposito del tuo intelletto.

Successivamente addurrò altre prove, esaminandone la validità o meno in rapporto alla dimostrazione della tua infinità.

117.  Prima via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.[62]

O Signore, non sono, forse, infiniti gli intelligibili e non si trovano, forse, attualmente nell’intelletto che conosce attualmente ogni cosa? Dunque, l’intelletto che li conosce attualmente tutti insieme è infinito.

Ma tale è il tuo intelletto, o Dio nostro, come risulta dalla settima conclusione già dimostrata.[63] Infinita è, dunque, anche la natura con cui il tuo intelletto si identifica.

Di questo entimema [64] dimostro tanto l’antecedente quanto la conseguenza.

Vediamo, anzitutto, l’antecedente. Le cose potenzialmente infinite, cioè quelle che si prendono una dopo l’altra, non si esauriscono mai. Ora se esse fossero attuali tutte insieme, sarebbero attualmente infinite.

Ma gli intelligibili — potenzialmente infiniti rispetto all’intelletto creato, da cui sono conosciuti successivamente, cioè uno dopo l’altro —, sono attuali tutti insieme nel tuo intelletto, da cui sono conosciuti simultaneamente.

Dunque, gli intelligibili sono in esso attualmente infiniti. Di questo sillogismo dimostro la premessa maggiore, anche se sembra abbastanza chiara.

Infatti, quando fossero attuali tutte insieme, le cose potenzialmente infinite sarebbero o attualmente infinite o attualmente finite.

Se fossero attualmente finite, prendendole una dopo l’altra, a un certo momento si esaurirebbero. Ma se, quando fossero attuali tutte insieme, non potessero essere prese tutte nello stesso tempo, allora è chiaro che sono attualmente infinite.

La conseguenza dell’entimema si dimostra così: quando un numero maggiore esige o implica una perfezione più grande d’un numero minore, allora l’infinità numerica implica una perfezione infinita.

Esempio: per trasportare dieci pietre ci vuole più forza che per trasportarne cinque; quindi, per trasportarne un numero infinito ci vorrà una forza infinita.

Ora, dato che per conoscere distintamente due oggetti l’intelletto ha bisogno d’una perfezione più grande che per conoscerne uno solo, è evidente (che per conoscere distintamente tutti gli intelligibili l’intelletto ha bisogno d’una perfezione infinita e, quindi, deve essere infinito).

La ragione di ciò sta nel fatto che, per conoscere distintamente un intelligibile, è necessaria un’applicazione e una precisa determinazione dell’intelletto rispetto ad esso. Quindi, se l’intelletto può applicarsi a molti oggetti, la sua capacità di conoscere è illimitata rispetto ad essi. E, conseguentemente, l’intelletto che può applicarsi ad infiniti oggetti è assolutamente illimitato.

118.  Altra dimostrazione fondata sull’atto conoscitivo.

Analogamente la conclusione si dimostra in rapporto all’atto di conoscenza, dal quale risulterà il suo valore anche in rapporto all’intelletto.

Infatti, poiché tanto la conoscenza di A quanto la conoscenza di B rappresentano rispettivamente una certa perfezione, non avverrà mai che lo stesso atto conoscitivo, abbracciante A e B, sia così distinto come lo sarebbero due atti, a meno che quell’unico atta non racchiuda la perfezione rispettiva di ambedue.

Altrettanto si dica di tre o più atti.

119.  Obiezioni e risposte.

Si dirà che, quando più oggetti sono conosciuti per mezzo dello stesso concetto, il numero maggiore di oggetti non implica una perfezione più grande.

In altre parole: la prova fondata sull’atto conoscitivo vale soltanto quando molti atti di conoscenza racchiudono perfezioni formali distinte, come avviene solo nella conoscenza di specie diverse.

Ma le specie non sono infinite. Solo gli individui sono infiniti e poiché la loro conoscenza non implica perfezioni formali diverse, dato che essi non implicano diverse perfezioni formali, è chiaro che la conoscenza di più individui non implica perfezione più grande della conoscenza d’un individuo soltanto.

Risposta alla prima obiezione.

Di uno stesso concetto si deve dire ciò che s’è detto dell’intelletto e dell’atto conoscitivo perché la pluralità degli oggetti che rappresenta suppone in esso maggior perfezione, dovendo includere eminentemente il concetto dei diversi oggetti, ciascuno dei quali comporta una certa perfezione.

Ora, un concetto che ne comprende infiniti altri implica una perfezione infinita.

Risposta alla seconda obiezione.

Per mezzo del concetto universale gli individui sono conosciuti solo imperfettamente perché — come ho dimostrato nella questione relativa al principio di individuazione [65] — non sono conosciuti secondo ogni dimensione della loro entità positiva.

Perciò, un intelletto che conosce qualunque oggetto conoscibile secondo tutta la sua intelligibilità, coglie anche le diverse entità positive di più individui e tale conoscenza racchiude una perfezione più grande di quella d’un solo oggetto.

La ragione sta nel fatto che la conoscenza d’ogni entità positiva assoluta, come tale, implica una certa perfezione. Se ciò non fosse vero, tanto l’intelletto quanto l’atto conoscitivo sarebbero egualmente perfetti anche senza siffatta conoscenza.

Perciò, questa non converrebbe all’intelletto divino. Ma ciò si oppone all’ottava conclusione già dimostrata.[66]

Inoltre, l’infinità delle specie intelligibili è provata dall’infinità dei numeri e delle figure ed è confermata da S. Agostino nel diciottesimo capitolo del dodicesimo libro della Città di Dio.[67]

120.  Seconda via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.[68]

C’è anche un’altra via per dimostrare l’infinità divina. Infatti, se la causa seconda aggiungesse una certa perfezione alla Causa prima, operante secondo il massimo della sua efficienza, questa non potrebbe operare da sola così perfettamente come quando opera in unione con la causa seconda, perché la sua efficienza, da sola, sarebbe minore dell’efficienza d’ambedue.

Ma se la Causa prima può produrre, da sola, molto più perfettamente ciò che può produrre assieme alla causa seconda, allora è evidente che essa non riceve alcuna perfezione dalla causa seconda ed è infinita perché soltanto la perfezione d’un essere finito può aumentare grazie all’aggiunta di qualcosa.

Ora, la conoscenza d’un oggetto, soprattutto quella intuitiva,[69] è prodotta naturalmente dall’oggetto stesso, come dalla sua causa prossima.

Pertanto, se tale conoscenza si trova in un intelletto senza alcuna azione da parte dell’oggetto in questione, ma soltanto in virtù d’un oggetto anteriore destinato ad essere la causa superiore di quella conoscenza, allora è indubbio che l’oggetto anteriore è infinitamente conoscibile precisamente perché l’oggetto inferiore non aggiunge nulla alla sua conoscibilità.

Ma tale oggetto è la natura prima perché in virtù della sua presenza soltanto, senza il concorso d’alcun altro oggetto, l’intelletto del Primo Principio conosce tutto — come risulta dalla settima conclusione di questo capitolo [70] —, e conosce in maniera perfettissima — come risulta dalla seconda conclusione di questo capitolo.[71]

Dunque, nessun oggetto intelligibile aumenta la conoscibilità della Natura prima. Perciò, questa è infinita nella linea della conoscibilità; quindi, anche nella linea dell’entità, perché la conoscibilità d’un essere dipende precisamente dalla sua entità.

121.  Obiezioni contro la seconda via dell’infinità.

1) Si obietta: allora nessuna causa seconda — che è finita — può produrre una conoscenza dell’effetto tanto perfetta quanto quella prodotta dall’effetto stesso. Ma ciò non è vero. Perché la conoscenza che si ottiene per mezzo della causa è più perfetta di quella che si ha per mezzo dell’effetto senza quella della sua causa.

2) Inoltre, dal fatto che la Causa prima produce senza il concorso della causa seconda tanto perfettamente quanto con il concorso, sembra si possa concludere solo che la Causa prima possiede la perfezione della seconda più perfettamente di essa, non però l’infinità della Causa prima, perché anche una perfezione finita può essere più eminente della perfezione della causa seconda.

3) Infine, anche se la causa seconda non aggiunge nulla sul piano operativo alla Causa prima, che agisce secondo il massimo della sua potenza, come si dimostra che non le aggiunge nulla sul piano dell’essere? Infatti, se ad esempio il nostro sole, illuminando un ambiente, producesse tanta luce quanta ne può ricevere l’ambiente in questione, un altro sole non aggiungerebbe nulla all’azione illuminante del nostro, ma aggiungerebbe qualcosa al suo essere perché sarebbe una sua aggiunta. Lo stesso avviene per l’intelletto divino: in esso la conoscenza è proporzionata alla presenza della Natura prima, considerata come oggetto. Perciò, la causa seconda non aumenta affatto l’intelligibilità della Natura prima rispetto all’intelletto divino, perché questo non può essere attuato di più, dato che lo è già sommamente, proprio come il secondo sole non potrebbe illuminare un ambiente già saturato dalla luce del primo.

Ma se da ciò si deduce che la causa seconda non aggiunge nulla al Primo Principio nella linea dell’essere, sembra che, analogamente, si debba concludere che la terra non aggiunge nulla al sole sul piano dell’essere soltanto perché non ne accresce la potenza illuminante sul piano dell’azione.

122.  Soluzione della prima obiezione.

Alla prima obiezione: poiché non si può concludere nulla di scientificamente valido intorno a una cosa prima che questa sia stata conosciuta in se stessa semplicemente, è chiaro che, quando si tratta della conoscenza scientifica,[72] l’effetto, conosciuto per mezzo della causa, non è conosciuto in maniera intuitiva, come lo sarebbe se fosse conosciuto in se stesso, perché secondo l’espressione di S. Agostino — De Trinitate, libro nono, capitolo ultimo [73] — « La conoscenza è prodotta dal soggetto conoscente e dall’oggetto conosciuto ».

Oppure, anche se la causa potesse produrre la conoscenza vera e propria non potrà mai produrre la conoscenza intuitiva, di cui ho parlato ampiamente altrove.[74]

Perciò, al di là d’ogni conoscenza raggiungibile per mezzo della causa, ce n’è una che solo l’oggetto in sé può generare in noi.

Se, quindi, Dio ha la conoscenza intuitiva della pietra senza che questa vi concorra in alcun modo, vuol dire che la conoscibilità propria della prima non aggiunge nulla alla conoscibilità dell’essere del Primo Principio che conosce la pietra per mezzo della propria essenza.

Pertanto, quando concludi: « nessuna causa finita genera la conoscenza perfetta dell’effetto », ammetto io pure che « nessuna causa finita produca, per noi, la conoscenza più perfetta possibile dell’effetto », cioè la conoscenza intuitiva.

Ma quando affermi: « la conoscenza ottenuta per mezzo della causa è più perfetta », rispondo che quando si parla di tale conoscenza si include anche la conoscenza dell’effetto in sé, perché la conoscenza d’una realtà complessa come l’effetto si ottiene mediante quella della causa e dell’effetto insieme.[75]

D’altronde, è vero che quanto è prodotto unitamente dalla Causa prima e dalla causa seconda è più perfetto di ciò che è prodotto dalla causa seconda da sola.

123.  Istanza contro la risposta precedente.

Contro ciò che è stato detto, si obietta che una causa finita prima [76] — da sola — può produrre una conoscenza più perfetta della causa seconda — pure da sola —, ma che solo quest’ultima può produrre la conoscenza intuitiva di sé.

All’obiezione rispondo che la causa finita prima — da sola — può produrre qualcosa di più perfetto della causa seconda — da sola — per esempio la conoscenza intuitiva di sé, ma tale causa non può produrre un effetto destinato ad essere prodotto dalla seconda come tale o, più esattamente, come ‘prima’ nei riguardi d’ogni altra causa finita.

E ciò perché la causa seconda nel produrre la conoscenza intuitiva di sé — conoscenza che non può essere prodotta da una causa finita anteriore — può trovarsi solo accidentalmente ordinata rispetto a un’altra causa.

Dunque, la conoscenza intuitiva esisterebbe anche se il suo oggetto non fosse prodotto da una causa anteriore o esisterebbe, comunque, senza alcuna causa finita anteriore.

124.  Soluzione della seconda obiezione.

Anche se la causa finita anteriore contenesse, essenzialmente, tutta la perfezione efficiente. della seconda; anzi, anche se la causa anteriore superasse in perfezione quella posteriore nel senso che avrebbe in modo eminente quanto l’altra possiede in modo formale, ciononostante la medesima perfezione, posseduta in maniera eminente e formale insieme, è superiore anche nella linea dell’operare alla stessa perfezione, posseduta solo in maniera eminente.

In via generale si può affermare: quando una perfezione, posseduta formalmente, aggiunge qualcosa alla stessa perfezione, posseduta eminentemente, allora quand’è posseduta in maniera formale ed eminente insieme è più perfetta di quando è posseduta o solo in maniera formale, o solo in maniera eminente.

Ma tale aggiunta si verifica solo quando l’essere eminente è finito, perché un finito addizionato a un altro produce qualcosa di maggiore, altrimenti l’universo non sarebbe più perfetto della prima natura causata, come vorrebbero coloro che sostengono che la prima natura causata contiene in maniera eminente tutta la perfezione degli esseri inferiori.[77]

Ma quest’opinione, io l’ho confutata nell’ultima conclusione del secondo capitolo.[78]

125.  Soluzione della terza obiezione.

Una perfezione che può esser prodotta solo da un essere così determinato, dal punto di vista della sua forma, da rivestire rispetto ad essa il carattere di causa prima accidentalmente ordinata in rapporto a cause finite anteriori, o che può essere prodotta da altri esseri finiti, ma solo con la formale cooperazione di quell’essere determinato, una perfezione siffatta può esistere solo in virtù d’un essere infinito al quale l’eventuale addizione di quell’essere non aggiunga nulla nella linea dell’operazione.

Vale, dunque, la ragione suddetta perché, se tale essere aggiungesse qualcosa all’essere infinito, a questo mancherebbe la causalità propria di quello e, quindi, la perfezione dipenderebbe da quel determinato essere come tale o dall’essere al quale nulla aggiunge nella linea dell’operazione.

Anzi, quell’essere non aggiunge nulla al Primo Principio neppure nella linea dell’essere perché la sua efficacia operativa gli appartiene appunto in virtù del suo essere o della sua entità formale.

Pertanto, se gli aggiungesse qualcosa nella linea dell’essere, vorrebbe dire che al Primo Principio manca l’efficacia propria di quell’essere e, per lo stesso motivo, il Primo Principio non avrebbe più eminentemente l’effetto producibile precisamente da quell’essere come tale.

È evidente, perciò, che l’esempio del sole non vale perché, se il primo sole come tale può produrre una cosa, il secondo non la produrrà né potrà produrla senza il primo.

Se il secondo sole aggiungesse al primo qualcosa, — non importa in relazione a quale effetto —, allora dico in breve che non gli aggiunge nulla che sia della stessa specie dell’effetto producibile necessariamente dal primo sole.

Dicendo ‘necessariamente’, voglio dire che non può essere causato in altra maniera — né può essere incausato e, quindi, più perfetto del causabile —, ma che può essere causato dal primo sole senza che il secondo gli aggiunga alcunché, né dal punto di vista operativo né dal punto di vista ontologico. l’esempio della terra non tiene, perché la luce non può dipendere dalla terra come da sua causa propria.

126.  Terza via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.[79]

Una terza maniera di provare la conclusione dell’infinità è la seguente: nessuna perfezione finita, che possieda il carattere di perfezione accidentale, sarà mai sostanziale. Ma la nostra conoscenza è accidentale perché è essenzialmente una qualità. Quindi, nessuna conoscenza finita sarà mai sostanziale.

Ma la conoscenza del Primo Principio è sostanza, come risulta dalla conclusione quinta [80] e settima [81] di questo capitolo. (Perciò è infinita).

Prova della maggiore: se due esseri convengono nella determinazione formale, fondamento della differenza specifica, convengono anche nel genere quando la determinazione formale sia finita perché, in tal caso, la differenza specifica contrae il genere di ambedue gli esseri.

Diverso sarebbe il caso, se la differenza specifica fosse finita in uno e infinita nell’altro. Allora, infatti, anche se i due esseri convengono in qualcosa perché coincidono nella determinazione formale, la differenza contrae il genere nell’essere in cui è finita, facendolo appartenere a un genere determinato, mentre non contrae nulla nell’essere in cui è infinita.

Per tal motivo, l’essere infinito non appartiene ad alcun genere.[82]

127.  L’attribuzione a Dio del concetto di specie.

In questo senso concepisco l’applicazione a Dio della specie e non del genere. La nozione di specie infatti, dice perfezione; quella di genere, no. Ma quando la si applica a Dio, la specie non si deve intendere come specie completa perché questa racchiude essenzialmente anche il genere e, in questo senso sarebbe contraddittorio applicarla a Dio.

Va intesa, dunque, come differenza specifica la quale, a differenza del genere, dice perfezione. Non deve, poi, sorprendere che a Dio si attribuisca l’una e non l’altro perché, di natura loro, non si includono reciprocamente.

Certo, neppure la differenza come tale si applica a Dio perché — come differenza — è finita ed entra necessariamente in composizione con il genere. Gli si attribuisce, invece, secondo il suo concetto assoluto, in base al quale dice soltanto perfezione per sé indifferente rispetto al finito o all’infinito, i quali sono modi dell’entità di tale perfezione, come il più e il meno lo sono della bianchezza.

128.  Precisazione dello scopo e inversione della terza dimostrazione.

So che certi punti, qui affermati, si oppongono ad alcune opinioni, ma qui non mi sono proposto di criticare le diverse sentenze.

Questo avremo modo di farlo altrove.[83]

In connessione con la terza prova si può formularne un’altra, simile ad essa, ma rovescia.

Infatti, nessuna sostanza finita è identica a una perfezione che, se fosse finita, sarebbe per sé accidentale. Ma la sostanza prima è identica al suo atto conoscitivo...

Così si può aggiungere alla premessa maggiore della terza prova che nessuna perfezione, identica a una perfezione accidentale, è sostanziale o identica alla sostanza, perché le categorie sono originariamente diverse: ciò che è accidentale in un essere non sarà mai sostanza in un altro. Perciò l’atto conoscitivo non è identico a nessuna sostanza che appartenga veramente alla categoria della sostanza.

Infatti, se questa è finita, sarà una sostanza finita (e l’atto conoscitivo non sarà identico ad essa); se è infinita, allora è evidente (che l’atto conoscitivo è identico ad essa e, quindi, infinito).

129.  Quarta via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.[84]

Sviluppando la riflessione precedente, propongo un’altra prova. Ogni sostanza finita appartiene a un genere. Ma la natura prima non appartiene a nessun genere, come risulta dalla prima conclusione di questo capitolo.[85] Perciò (non è finita).

La premessa maggiore è evidente, perché ogni sostanza finita conviene con le altre nel concetto comune di sostanza e, insieme, si distingue da loro dal punto di vista della forma. Perciò, l’elemento distintivo è identico, in qualche modo, con l’entità della sostanza, ma non pienamente, perché le nozioni di ciò per cui conviene con le altre e di ciò per cui si distingue sono originariamente diverse e nessuna di esse è infinita.

Quindi, nessuna di esse include completamente l’altra per identità e, di conseguenza, ambedue costituiscono un essere riferendosi rispettivamente come un elemento contraente e un elemento contratto, come atto e potenza, dando luogo così al genere e alla differenza e, quindi, alla specie.

L’argomento si può formulare brevemente anche in questo modo: ogni cosa che conviene realmente con altre conviene e differisce in virtù di realtà che non sono formalmente identiche, a meno che una di esse non sia infinita.

In tal caso, l’essere che le racchiude ambedue sarà infinito. Ma se nessuna di esse è identica all’altra, tra loro vi sarà composizione. Dunque, ogni essere che conviene essenzialmente con un altro, ma anche se ne distingue essenzialmente, o è composto di realtà formalmente distinte o è infinito.

Ma quanto esiste per sé conviene e differisce nel modo suddetto.

Dunque, se è assolutamente semplice, sarà anche infinito.

130.  Fondamento delle prime quattro prove dell’infinità.

L’infinità divina si può, dunque, dimostrare attraverso queste quattro vie, tre delle quali si fondano nella natura dell’intelletto, mentre la quarta è ricavata dalla semplicità dell’essenza, dianzi dimostrata.

131.  Quinta via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.[86]

Una quinta via è quella che si fonda sull’eminenza che consente di ragionare nel modo seguente: è impossibile che ci sia un essere più perfetto dell’essere sommamente eminente, come risulta dal corollario della quarta conclusione del capitolo terzo,[87] mentre non è impossibile che ci sia un essere più perfetto d’uno finito.

Perciò (l’essere sommamente eminente è infinito).

La premessa minore è evidente per il fatto che l’infinito non si oppone all’essere. Anzi, l’infinito è più grande d’ogni essere finito. La stessa prova si può formulare anche in modo diverso, per quanto sostanzialmente identico: un essere cui non ripugna l’infinità intensiva, non è sommamente perfetto se non è infinito perché, se non è infinito, può essere ecceduto, dato che l’infinità non gli ripugna.

Ma l’infinità non ripugna all’essere.[88] Quindi, l’essere sommamente perfetto è infinito.

132.  Inconoscibilità a priori del concetto di essere infinito.

La premessa minore di questo ragionamento (all’essere non ripugna l’infinità) — data come evidente nella dimostrazione precedente — non sembra dimostrabile a priori.[89] Infatti, come i concetti contraddittori sono tali in virtù del loro contenuto — e questo è per sé evidentissimo — così le nozioni non contraddittorie sono tali proprio in virtù del loro contenuto, pure evidentissimo, a tal punto che non si può dimostrarle che chiarendone il concetto stesso.

Ma il concetto di essere non si può chiarire per mezzo di uno più noto. Quello di infinito, invece, noi lo conosciamo solo per mezzo del concetto finito, e va inteso come lo si intende comunemente, cioè: l’infinito è ciò che supera ogni essere finito non solo secondo qualsiasi misura finita, ma anche oltre ogni misura ipotizzabile.[90]

133.  Plausibilità dell’intrinseca convenienza dell’essere infinito.[91]

La convenienza dell’essere e dell’infinità si può, rendere, in qualche modo plausibile. Infatti, come si deve ritenere possibile tutto ciò che non è evidentemente impossibile, così bisogna ritener compossibile tutto ciò di cui l’incompossibilità non appare evidente.

Ma tra essere e infinità non risulta evidente nessuna incompossibilità: 1) perché la finitezza non costituisce il contenuto essenziale del concetto di essere; 2) né, da questo concetto, risulta che sia una sua proprietà trascendentale.

Ora, affinché tra l’essere e l’infinità si dia vera opposizione sono indispensabili l’una o l’altra di queste condizioni (cioè che sia o costitutivo o proprietà dell’essenza).

Del resto, è abbastanza evidente che anche le proprietà trascendentali appartengono all’essere con cui sono convertibili.

3) Tale convenienza si può sostenere anche per un terzo motivo. Come, infatti, non è impossibile pensare una grandezza quantitativa costituita da una infinità di parti successive, allo stesso modo non ripugna all’ente l’infinità nella perfezione, che è l’infinità di parti simultanee o l’infinità nell’essere.

4) Quarto motivo: se un’attività infinita è, assolutamente parlando, più perfetta d’una quantità infinita, perché dovrebbe esser possibile questa e non quella? Ma, se è possibile, l’attività infinita esiste di fatto, come risulta dalla quarta conclusione del capitolo terzo.

5) Quinto motivo: l’intelletto, che ha come oggetto l’essere, non prova alcuna ripugnanza nel pensare l’ente infinito; anzi, gli sembra l’oggetto intelligibile più perfetto. (Perciò non c’è ripugnanza tra infinità e essere).

Se fosse vero il contrario, sarebbe sorprendente che una contraddizione simile, concernente l’oggetto primo dell’intelletto, non appaia a nessun intelletto, mentre un disaccordo sonoro, per esempio, offende così facilmente l’udito.

Se, dico, un disaccordo sonoro è subito avvertito e offende l’udito, come mai nessun intelletto rifugge dal pensare l’essere infinito come rifuggirebbe da qualcosa di assurdo e, quindi, distruttivo del suo oggetto primo?

134.  Valorizzazione dell’argomento di S. Anselmo.

Alla luce del principio precedente [92] si può valorizzare anche la prova anselmiana [93] del sommo pensabile. La descrizione che Anselmo dà di Dio si deve intendere così: Dio è un essere tale che, pensato senza contraddizione, non consente di poterne pensare uno di più grande, senza con ciò stesso cadere nella contraddizione.

Perché, effettivamente, un essere il cui concetto fosse contraddittorio risulterebbe dall’unione di due concetti opposti che in nessun modo possono costituirne un terzo, dato che non si determinano rispettivamente.

Dunque, se è concepibile senza contraddizione, il sommo pensabile, sinonimo di Dio, esiste anche in realtà. Anzitutto, come realtà quidditativa,[94] perché in esso l’intelletto trova la sua massima soddisfazione, per cui bisogna dire che esso possiede la natura di oggetto primo dell’intelletto, cioè la natura dell’essere e in sommo grado.

In secondo luogo, come realtà attuale: infatti, il sommo pensabile non esiste solo nell’intelletto pensante, altrimenti potrebbe esistere anche fuori dell’intelletto — perché è pensabile — e insieme non potrebbe esistere — perché ripugna alla sua natura di esistere in dipendenza da un altro —, come risulta dalla conclusione terza [95] e quarta [96] del terzo capitolo.

Dunque, il pensabile che esiste anche fuori dell’intelletto è maggiore di quello che esiste solo nell’intelletto. Non già nel senso che uno stesso essere, pensato soltanto, diventi maggiore se esiste in realtà, ma nel senso che un pensabile — che esiste — è maggiore di ogni pensabile avente soltanto una realtà pensata.

135.  Seconda valorizzazione della prova anselmiana.

L’argomento di S. Anselmo può essere valorizzato anche diversamente. Ciò che esiste è un pensabile maggiore, e cioè un intelligibile più perfetto, perché può essere conosciuto per intuizione. Invece, ciò che non esiste né in sé né in un essere più perfetto, al quale nulla aggiunge, non può essere oggetto di intuizione.

Ora, ciò che può essere oggetto di intuizione è più perfettamente conoscibile di ciò che non può esser che oggetto d’astrazione.[97] Perciò, ciò che è sommamente conoscibile, esiste.

136.  Sesta via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.[98]

Una sesta via per giungere alla conclusione dell’infinità può esser desunta dal fine. La nostra volontà può desiderare o amare qualcosa di più grande di qualsiasi fine limitato, come l’intelletto può, dal canto suo, conoscerlo. Sembra, anzi che la volontà possieda un’inclinazione naturale ad amare sommamente il Bene infinito.

Infatti, l’esistenza d’un’inclinazione naturale nella volontà verso una cosa si arguisce dal fatto che la vuole prontamente e gioiosamente, pur non avendone l’abitudine.

Ora, la volontà libera — come ci sembra di percepirla attraverso l’amore del Bene infinito —, non riposa perfettamente che nel Bene sommo.

Perché mai non l’odierebbe naturalmente se fosse l’opposto del suo oggetto, come odia naturalmente il non essere?

137.  Settima via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.

La settima via per dimostrare l’infinità del Primo Principio si fonda sulla causa efficiente.

Aristotele [99] l’accenna nel libro ottavo della Fisica [100] e nel dodicesimo della Metafisica,[101] dove afferma che la causa efficiente prima è principio d’un movimento infinito e, perciò, possiede una potenza infinita.

La premessa di quest’argomento può esser valorizzata nel modo seguente: la conclusione è legittima tanto se la causa efficiente può esser principio di movimento infinito quanto se lo è di fatto, perché, in ambedue i casi, deve esistere in atto.

La conseguenza, poi, può esser valorizzata così: se la causa prima è principio di movimento infinito in virtù della propria natura e non d’un’altra, allora è evidente che essa ha in suo potere tutto l’effetto simultaneamente, appunto perché muove in maniera indipendente. Ma ciò che contiene virtualmente un effetto infinito, è infinito. Quindi (la causa prima è infinita).

Questa prova si può valorizzare anche diversamente, osservando che il primo movente ha in suo potere, simultaneamente, tutti gli effetti producibili per mezzo del movimento.

138.  Valutazione della dimostrazione precedente.

Non sembra, però, che la conseguenza sia probante neppure dopo i precedenti tentativi di valorizzazione.

Non lo è, anzitutto, dopo il primo, perché una durata più lunga non implica perfezione maggiore, così come la bianchezza non è più perfetta se dura un anno invece che un giorno. Allo stesso modo, il movimento lungo quanto si voglia non è un effetto più perfetto del movimento d’un sol giorno. Dunque, dal fatto che l’agente abbia il suo potere tutti gli effetti, nello stesso tempo, non si può dedurre che la sua perfezione sia maggiore, ma soltanto che muove più a lungo e in virtù propria. Perché la conclusione fosse valida bisognerebbe dimostrare che l’eternità dell’agente ne implica l’infinità, altrimenti dall’infinità del movimento non si potrà mai dedurre l’infinità dell’agente.

Così restando le cose, la conclusione ricavata mediante il primo tentativo di valorizzazione va respinta, a meno che non venga limitata all’infinità di durata.

Anche il secondo tentativo di valorizzazione manca di forza dimostrativa. Infatti, dal fatto che un agente, finché dura, può produrre successivamente tutti gli effetti della stessa specie, non si può dedurre una perfezione più grande perché, durando mille istanti, potrà realizzare mille effetti, come potrà realizzarne, durando un solo istante.

D’altronde, secondo i filosofi è possibile soltanto l’infinità numerica degli effetti producibile per mezzo del movimento, cioè un numero infinito di esseri generabili e corruttibili, non l’infinità vera e propria, perché, a loro avviso, le specie sono finite.[102]

Ma se il movimento è infinito, essi sono infiniti. Quindi (il primo movente ha una potenza infinita).

Se qualcuno provasse che è possibile l’infinità della specie, dimostrando che certi movimenti celesti sono incommensurabili e che, quindi, non possono mai tornare allo stesso punto, anche se durassero all’infinito, e se dimostrasse pure che infinite combinazioni di specie diverse possono produrre infiniti generabili specificamente diversi — qualunque sia il valore intrinseco di tale dimostrazione —, tutto ciò non avrebbe alcun valore per quanto riguarda l’intenzione di Aristotele che negò l’infinità delle specie.[103]

139.  Due obiezioni contrarie alla prova aristotelica dell’infinità.

Qui si obietta: come mai, nella prima via,[104] hai dedotto l’infinità di Dio dal fatto che l’essenza divina è causa della conoscenza d’infiniti oggetti e qui neghi che l’infinità possa dedursi dal fatto che la stessa essenza sarebbe causa della produzione di infiniti oggetti, quasi che la conoscenza dell’essere implichi maggior perfezione della sua produzione?

Inoltre: come mai, nella seconda via,[105] hai voluto dedurre l’infinità del Primo Principio dal solo fatto che la sua natura è la ragione totale della conoscenza intuitiva che Egli ha d’ogni altra natura, e non la deduci qui dal fatto che è la ragione totale dell’essere di ogni altra natura? Bisogna ammettere, infatti, che è causa totale almeno della natura più vicina a sé.[106]

140.  Risposta alla prima obiezione.

Quando un essere può produrre insieme molti effetti, ciascuno dei quali racchiude una propria perfezione, è tanto più perfetto quanto maggiore è il numero di tali effetti. E questo vale per l’atto con cui si conoscono insieme infiniti oggetti.

Pertanto, se dimostrassi che un essere può causare infiniti effetti simultaneamente, ammetterei che tale essere possiede una potenza infinita; non l’ammetterei, invece, se potesse causare infiniti effetti solo successivamente.

141.  Istanze contro la risposta alla prima obiezione.

Dirai che possiede tale potenza simultaneamente e, per quanto dipende da Lui potrebbe causare simultaneamente infiniti effetti, ma che è la natura degli effetti che non glielo consente. Così uno che è capace di produrre il bianco e il nero, non è meno perfetto per il fatto che questi colori non siano producibili contemporaneamente, perché ciò dipende appunto dalla loro reciproca incompatibilità, non dalla deficienza della loro causa.

Osservo, però, che non è stato dimostrato che il Primo Principio sia la causa totale di infiniti effetti, né che li possieda totalmente e simultaneamente perché, per mezzo della causalità efficiente, non è stato dimostrato che la causa seconda non sia necessaria a motivo della causabilità corrispondente alla sua formalità specifica.

Insisterai dicendo che lo si dimostra facilmente per il fatto che il Primo Principio possiede eminentemente tutta la causalità della causa seconda, compresa quella che corrisponde alla sua formalità specifica, per quanto non sia stato dimostrato che la perfezione causale, posseduta formalmente, non è inferiore alla medesima perfezione, posseduta eminentemente.

Di conseguenza, il Primo Principio possiede simultaneamente e eminentemente tutta la causalità rispetto a tutti gli effetti possibili, sia pure infiniti, anche se questi sono prodotti successivamente.

Se ben comprendo, quest’è l’estremo tentativo per salvare il valore della deduzione aristotelica.[107]

A partire da esso, io dimostro l’infinità del Primo Principio nel modo seguente: se il Primo Principio possedesse tutta l’efficacia causale in maniera formale e simultanea — ammesso pure che gli effetti possibili non possano essere prodotti simultaneamente —, egli sarebbe infinito perché — per quanto dipende da Lui — sarebbe capace di produrre simultanemente infiniti effetti.

Ora, poter produrre più effetti simultaneamente implica una potenza intensiva maggiore.

Dunque, se avesse l’efficacia causale in maniera più perfetta che se la possedesse formalmente, a più forte ragione risulterebbe la sua infinità intensiva.

Ma il Primo Principio possiede tutta l’efficacia causale, efficacia che possiede più eminentemente di quanto non avrebbe se la possedesse in modo formale.

Perciò, è dotato di potenza intensivamente infinita. Per quanto, dunque, abbia rinviato l’onnipotenza propriamente detta [108] — quella cioè che corrisponde al concetto dei Cattolici — al trattato che avrà come oggetto la verità di fede,[109] ciononostante — pur rimanendo indimostrata quell’onnipotenza —, la ragione riesce a dimostrare la potenza infinita, cioè la potenza che comprende in sé simultaneamente ed eminentemente tutta l’efficacia causale, potenza che, se esistesse formalmente, potrebbe produrre, nello stesso tempo, infiniti effetti, nell’ipotesi che questi fossero producibili nello stesso tempo.

142.  Ulteriore istanza.

Se si replica che il Primo Principio non può produrre simultaneamente infiniti effetti perché non è stato dimostrato che sia causa totale di infiniti effetti, rispondo che l’obiezione non tiene perché, se possiede quanto occorre per essere causa totale, non è più perfetto di quanto non lo sia ora, dal momento che è causa prima.

E ciò, in primo luogo, perché quelle due cause — causa totale e causa prima — non si richiedono per aggiungere perfezione all’operazione — in tal caso un effetto più remoto sarebbe più perfetto per il fatto che esigerebbe una causa più perfetta —,ma perché, secondo i Filosofi, il Primo Principio non può produrre immediatamente un effetto imperfetto e, quindi, ha bisogno d’una causa imperfetta per produrlo.[110]

In secondo luogo, perché, secondo Aristotele,[111] tutte le perfezioni si trovano nel Primo Principio in maniera più eminente di quanto non fosse se si trovassero in Lui in maniera formale, qualora potessero trovarsi in tal modo.

Così inteso, l’argomento aristotelico per la potenza infinita sembra avere valore dimostrativo.

143.  Risposta alla seconda obiezione contraria alla valorizzazione della prova aristotelica.

Dal fatto che l’essenza divina, da sola, è la ragione adeguata dell’intuizione della pietra deriva che questa non aggiunge alcuna perfezione a quella. Ma ciò non deriverebbe nell’ipotesi in cui l’essenza divina fosse la causa immediata della pietra, neppure se fosse causa totale di essa.

Dal resto, la Causa prima è causa totale della suprema natura creata.

144.  Altro modo di dimostrare l’infinità del Primo Principio.

In base alla via dell’efficienza si ragiona anche in quest’altro modo: la causa prima crea. Ora, fra gli estremi della creazione c’è una distanza infinita. (Dunque, la Causa prima è infinita).

La premessa maggiore di questo ragionamento è oggetto di fede; ed è vero che il non essere precede l’essere, in qualche modo, nella durata (secondo Avicenna lo precede anche per natura).[112]

Ma tale premessa si dimostra anche mediante la decimanona conclusione del terzo capitolo [113] perché almeno la prima natura dopo Dio deriva da Lui e non da se stessa, ricevendone l’esistenza senza alcun presupposto.

Del resto, come s’è già detto, l’essere prodotto non implica necessariamente mutazione, né l’affermazione che il non essere è anteriore all’essere per natura implica che ci siano gli estremi della mutazione prodotta dalla potenza divina.

Comunque, checché ne sia della premessa, la conseguenza non rimane dimostrata perché, quando fra gli estremi non c’è vera distanza, ma si dice che essi sono distanti per il semplice fatto di essere estremi, allora la distanza effettiva si misura dall’entità dell’estremo maggiore.[114]

Per esempio: Dio dista infinitamente dalla creatura.

145.  Ultima via per dimostrare l’infinità del Primo Principio.

Infine, la conclusione dell’infinità viene dimostrata mediante la negazione della causa intrinseca al Primo Principio. Poiché, infatti, la forma è ‘finita’ o limitata dalla materia, se una forma non può esistere, per natura sua, unita alla materia, vuol dire che è infinita.

146.  Valutazione di quest’ultima prova.

Penso che questo argomento non abbia alcun valore perché, secondo quelli stessi che lo sostengono, anche l’angelo è immateriale e, tuttavia, non è infinito. d’altra parte, non avverrà mai che l’esistenza — posteriore all’essenza, secondo loro —, possa limitare l’essenza stessa.

Ecco perché ogni entità ha un grado intrinseco di perfezione in virtù della sua natura e non per mezzo d’un altro essere.[115]

Del resto, affermare che è la materia che limita la forma e dedurne che una forma non limitata dalla materia è illimitata, significa cadere in un sofisma.[116] Allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento, che un corpo è limitato da un altro corpo, se esso non fosse così limitato sarebbe infinito e, quindi, infinito sarebbe l’ultimo cielo.

Ma questo è proprio il sofisma di cui parla il terzo libro della Fisica.[117]

In realtà, come il corpo è limitato anzitutto in se stesso, così la forma finita è tale anzitutto in se stessa, cioè per il fatto di essere una determinata natura, prima di essere limitata dalla materia.

In effetti, la seconda limitazione — quella della materia — presuppone la prima, non la produce. Dunque, l’essenza è limitata in un primo istante, per cui non è determinabile da parte dell’esistenza che in un secondo istante.[118]

Ora espongo brevemente un’altra conclusione.

147.  Conclusione decima: l’infinità implica l’assoluta semplicità.

1) Semplicità essenziale o esclusione della composizione essenziale.

In primo luogo, l’infinità implica la semplicità intrinseca dell’essenza. Infatti, se l’essere infinito non fosse semplice nella sua essenza, egli sarebbe composto o di parti di natura loro finite, o di parti di natura loro infinite.

Nel primo caso, sarebbe finito; nel secondo, ,la parte (infinita) sarebbe minore del tutto (infinito), cioè non sarebbe infinita.

2) Esclusione della composizione quantitativa.

In secondo luogo, l’infinità esclude anche la composizione di parti quantitative. Infatti, la perfezione infinita non può esser d’ordine quantitativo perché, se la quantità fosse finita, la perfezione sarebbe maggiore in una quantità maggiore.

Ma la quantità infinita è impossibile. — Così ragiona Aristotele nell’ottavo libro della Fisica [119] e nel dodicesimo della Metafisica.[120]

Contro quanto è stato detto si osserva che la perfezione quantitativamente infinita sarebbe dello stesso genere tanto nel tutto quanto nelle parti e, quindi, non sarebbe maggiore in una quantità maggiore, come ora l’anima intellettiva è una forma perfettissima ed è perfetta tanto in un corpo piccolo quanto in uno grande; tanto in una parte del corpo, quanto in tutto il corpo.

Se l’anima intellettiva avesse, di natura sua, una potenza infinita, se avesse cioè la potenza di conoscere infiniti oggetti intelligibili, essa l’avrebbe anche trovandosi in una grandezza piuttosto piccola e la sua potenza non sarebbe maggiore in una grandezza maggiore.

Dunque, va respinta l’affermazione secondo la quale ogni potenza, che si trova in una quantità maggiore ha grandezza maggiore.

148.  Valorizzazione della prova aristotelica della perfezione infinita.[121]

Il ragionamento d’Aristotele è valido in quanto esso dimostra che la perfezione infinita non si trova nella grandezza in modo da commisurarsi ad essa accidentalmente al punto che una sua parte risiederebbe nella parte corrispondente della grandezza stessa, perché allora la perfezione del tutto sarebbe maggiore della perfezione delle parti, e ciò almeno in rapporto all’efficienza operativa se non in relazione alla realtà intensiva.

Avverrebbe, dunque, quello che avviene in un fuoco grande e in una delle sue parti.

Quindi, in una grandezza finita non ci può essere una potenza di efficienza infinita ed estesa nello stesso tempo. Perciò, non ci può essere neppure una potenza di intensità infinita.

Questa seconda conseguenza (nella grandezza non ci può essere una potenza intensivamente infinita) è evidente perché solo l’infinità dell’efficienza implica una potenza essenzialmente infinita.

Che anche la prima conseguenza sia legittima (in una grandezza finita non ci può essere una potenza di efficienza infinita ed estesa nello stesso tempo), si può dimostrare in due modi:

Primo, perché in ogni parte eguale d’una grandezza finita si dà una potenza d’efficacia finita, altrimenti una parte della potenza non sarebbe minore della potenza intera. Perciò, la potenza è finita anche nella grandezza intera, perché ciò che è composto di parti finite, prese in numero finito, è finito.

Secondo, se aumenta la grandezza, aumenterà pure, allo stesso modo, la potenza d’efficienza. Quindi, se la potenza era originariamente finita, tale rimarrà sempre finché può crescere, cosa che si verificherà appunto finché si troverà in una grandezza finita.

Perciò, non si potrà mai pensare come incapace di crescere, a meno che non si trovi in una grandezza infinita. Quindi, non si potrà concepirla come infinità né in efficienza né in intensità.

149.  Rapporto tra potenza estensiva ed estensione.

Ma che dire dell’affermazione secondo la quale la potenza intensivamente infinita non si estende accidentalmente nel senso in cui una sua parte risiederebbe in una parte corrispondente della grandezza? Come dedurre da essa che tale potenza non si trova assolutamente in nessuna grandezza?

L’ultima ragione va completata nel modo seguente: l’estensione dilata il soggetto, non già la perfezione infinita né la materia di cui quella perfezione sarebbe la forma, come l’anima intellettiva è la forma del corpo. Poiché, però, tale perfezione non si trova nella materia, come risulta dalla prima conclusione di questo capitolo,[122] è evidente che (la potenza infinita non può essere in alcuna grandezza).

Anche il Filosofo, nel dodicesimo libro della Metafisica,[123] prima di esporre la prova, dimostrò che la potenza infinita non include materia.

Ora, in virtù di quella conclusione e di questa, la deduzione è abbastanza plausibile.

150.  Altra dimostrazione della conclusione.

La conclusione proposta si dimostra brevemente anche così: l’atto conoscitivo non è soggetto di estensione. Ma la Natura prima è identica al proprio atto conoscitivo — come risulta dalla sesta conclusione di questo capitolo [124] —, e non si trova nella materia in modo da poter dirsi estesa — come risulta dalla prima conclusione di questo capitolo.[125] (Dunque, la Natura prima non è estesa).

151.  Infinità e composizione accidentale.

3) Esclusione della composizione accidentale.

In terzo luogo, dall’infinità dell’essenza divina si deduce anche che questa non può entrare in composizione con gli accidenti, e ciò perché ogni essere perfezionabile è privo, per natura, dell’entità di qualche perfezione, altrimenti non si troverebbe in potenza rispetto ad essa.

Per questo ad ogni essere perfezionabile si può aggiungere nuova perfezione e il tutto, che ne risulta, sarà qualcosa di più perfetto di ciascuna delle parti che lo compongono.

Ma all’Essere infinito non manca nulla e nulla di quanto può unirsi a Lui per aumentare la sua perfezione, altrimenti ci sarebbe qualcosa di maggiore dell’infinito.

Inoltre, l’infinito non può aver accidenti materiali perché non è esteso. Neppure. può avere gli accidenti spirituali pertinenti all’intelletto e alla volontà, perché le perfezioni che sembrerebbero principalmente accidentali, come il conoscere e il volere, sono in Lui identiche alla sua essenza, come risulta dalla sesta conclusione di questo capitolo.[126]

Per escludere la composizione accidentale si ragiona anche in quest’ultimo modo: nel Primo Principio nulla è accidentale perché ciò che è essenziale precede ciò che è accidentale.

Ma nel Primo Principio nulla è causato; nulla è potenziale. Ciò vuol dire che nessuna determinazione accidentale appartiene alla sua essenza, non già che nulla si trovi accidentalmente in Lui.

La prima affermazione (nel Primo Principio nulla è accidentale) è evidente perché nell’essenza del Primo Principio — che è prima — nulla è accidentale anche se qualcosa di diverso da essa possa trovarsi accidentalmente in essa. In quest’ultima ipotesi, rimarrebbe vero che qualcosa di essenziale sarebbe anteriore rispetto a qualcosa di accidentale, perché l’essenza prima sarebbe anteriore rispetto alla sua unione con l’accidente.

La seconda affermazione (nel Primo non vi è nulla di causato) è pure evidente perché l’essenza prima sarebbe incausata anche se qualcosa di causato la determinasse accidentalmente.

Infatti, è impossibile che l’essenza d’una sostanza causata sia causa di se stessa, pur non escludendo la possibilità che qualcuna sia causa dei propri accidenti.

La terza affermazione (il Primo Principio non ha potenza), infine, è evidente perché la potenza rispetto a un accidente è potenza in senso accidentale. Perciò, non può trovarsi in un essere che, per natura, è soltanto atto.

152.  Altra prova della semplicità assoluta e sua valutazione.

Per dimostrare la conclusione si argomenta anche in un altro modo. Si dice, infatti, che nel Primo Principio vi è solo la perfezione pura, come risulta dalla seconda conclusione di questo capitolo.[127]

Ma ogni perfezione pura è identica all’essenza divina, altrimenti questa non sarebbe ottima per natura o vi sarebbero più esseri assolutamente ottimi.

Questo ragionamento non tiene perché, come risulta da quanto è stato detto nella sesta prova [128] della quarta conclusione di questo capitolo, non ripugna alla nozione di perfezione pura che ve ne siano molte e che ciascuna di esse sia suprema nel proprio grado pur essendovi un solo essere sommo, migliore di qualsiasi altro e superiore a tutte le perfezioni pure; né è assurdo che l’essenza del Primo Principio sia migliore di qualsiasi altra perfezione, benché nessuna perfezione pura sia identica ad essa, ma solo inerisca ad essa.

Infatti, non è logico dire: un attributo è migliore d’ogni altro incompatibile con esso ed è sommo nel suo ordine; quindi, è assolutamente ottimo. è logico dire, invece: è ottimo nell’ambito del suo genere, cui appartengono tanto l’attributo in questione quanto gli attributi ad esso opposti.

153.  Ulteriore istanza e sua soluzione.

Si dirà, tuttavia, che se le perfezioni pure si includono per identità, l’essere che ne possiede una più perfettamente d’un’altra, possiede pure anche l’altra allo stesso modo.

Ma la conclusione è sbagliata. Infatti, la materia è più necessaria della forma, ma possiede un’attualità minore.[129] Così pure l’accidente dipende dalla sostanza, essendo più semplice di essa.

Allo stesso modo, spesso il cielo è meno alterabile d’un composto, ma il nostro corpo — in quanto animato — è più nobile del cielo.[130]

Pertanto, bisogna concludere che le perfezioni pure — eccetto le proprietà trascendentali dell’essere — sono diverse tra loro e differiscono, forse, anche dal soggetto cui appartengono e una può essere posseduta più intensamente e un’altra meno intensamente o non essere posseduta affatto.

154.  Valutazione della tesi che pone le perfezioni pure solo in Dio.

Ma neppure la prima affermazione di questo ragionamento (solo nel Primo Principio c’è perfezione pura) è stata dimostrata.

Infatti, la seconda affermazione allegata (la perfezione pura è identica alla essenza del Primo Principio) non vale per l’accidente inerente, ma solo per ciò che è intrinseco alla Natura somma.

Ora, se qualche ostinato affermasse l’esistenza di qualche accidente nel Primo Principio, sarebbe difficile comprendere che si tratterebbe d’una perfezione pura, perché talvolta nature più nobili sono qualificate da attributi meno nobili e nature meno nobili da attributi più nobili, detti perfezioni pure.

Per esempio: la materia prima è semplice; l’uomo, invece, non lo è. Eppure la semplicità è una perfezione pura.

Anzi, sarebbe difficile e, forse, anche impossibile dimostrare mediante gli ultimi quattro ragionamenti che nel Primo Principio non c’è accidente accidentale [131] che gli inerisca contingentemente, accidente secondo il quale il Primo Principio potrebbe mutare accidentalmente, sia per proprio intervento sia sotto l’azione d’un essere posteriore, perché anche della nostra volontà si dice che passa all’atto da sé pur ammettendo il concorso della Causa prima in rapporto ad esso.

Se fosse stato adeguatamente dimostrato che la semplicità del Primo Principio si oppone a qualsiasi accidente, allora la conclusione sarebbe molto ricca di significato.

Comunque, se qualcuno non gradisse le due prime dimostrazioni della semplicità divina, ne porti di migliori.

155.  Elevazione dell’animo a Dio.

Signore, Dio nostro, molte tue perfezioni, conosciute dai Filosofi, possono essere dimostrate anche dai Cattolici, da quanto è stato detto.[132]

Tu sei il Primo efficiente, tu sei il Fine ultimo. Tu sei supremamente perfetto, trascendente tutte le cose. Tu sei totalmente incausato e, quindi, ingenerabile e inalterabile.

Di più, Tu sei assolutamente incapace di non esistere perché sei intrinsecamente necessario. Perciò, sei eterno perché possiedi, nello stesso tempo, una durata illimitata, priva della potenza di successione, perché la successione può verificarsi solo in un essere che viene continuamente prodotto o, almeno, in un essere che dipende da un altro nel suo esistere, dipendenza che è ben lungi dall’essere intrinsecamente necessario.

Tu vivi di vita nobilissima perché sei dotato di intelletto e di volontà. Tu sei felice; anzi, sei la felicità stessa per essenza, perché ti autocomprendi. Tu sei chiara visione e soavissimo amore di Te e, per quanto abbia in Te solo la tua felicità e la tua sufficienza, Tu conosci simultaneamente e attualmente ogni oggetto conoscibile.

Tu puoi volere e — volendo — produrre ogni effetto possibile simultaneamente, contingentemente e liberamente. Perciò, la tua potenza è veramente infinita.

Tu sei incomprensibile e infinito, perché nessun essere finito è onnisciente; nessun essere finito è onnipotente, come nessun finito è supremo né fine ultimo o essere assolutamente semplice.

Tu sei al vertice della semplicità perché non hai parti distinte, né entità che non siano realmente identiche con la tua essenza.

Nessuna quantità, nessun accidente c’è in Te; per questo non sei accidentalmente mutevole, come ho dimostrato dianzi, ma sei, invece, essenzialmente immutabile.

Tu solo sei assolutamente perfetto; non un angelo o un corpo perfetto, ma un essere perfetto. A Te non manca alcuna entità che si possa trovare in un altro essere. Del resto, non ogni perfezione può trovarsi formalmente in un essere, ma può trovarsi formalmente in uno ed eminentemente in un altro com’è in Te, o Dio, che sei il supremo degli esseri, il solo infinito tra gli esseri.

Tu sei infinitamente buono e diffondi con estrema liberalità i raggi della tua bontà. A Te, essere infinitamente amabile, ciascun essere, a suo modo, è orientato come verso il suo fine ultimo.

Tu solo sei la verità prima, perché ciò che non è come si presenta è falso. Per questo, in ciò che è falso l’apparenza si distingue dalla natura, altrimenti la natura si presenterebbe come è.

In Te, invece, l’apparenza non si distingue dalla realtà: Tu ti presenti con la tua essenza, quell’essenza che, anzitutto, è presente a Te stesso. Nulla, quindi, di posteriore può rappresentare la ragione del tuo apparire.

Nella tua essenza, tutto ciò che è intelligibile, è presente al tuo intelletto in tutta la sua intelligibilità. Tu sei, dunque, splendidissima verità intelligibile; Tu sei infallibile verità e comprendi ogni verità intelligibile con certezza e compiutezza.

Infatti, le altre cose che sono presenti in Te non sono presenti per ingannarti, perché la ragione della loro presenza (cioè la tua essenza) non impedisce che la loro propria essenza sia presente al tuo intelletto.

La nostra vista si inganna quando l’apparire di qualcosa di estraneo impedisce di apparire a ciò che è, ma questo non capita al tuo intelletto. Anzi, con la presenza della tua essenza, tutto ciò che risplende in essa grazie alla sua perfettissima luminosità si presenta secondo la propria essenza specifica.

Per raggiungere il nostro scopo, non è necessario esaminare più diffusamente la tua verità e le tue idee.

156.  Digressione sulle idee divine e cenno a un altro trattato.

Certo, di quest’ultime si dicono molte cose che si potrebbero anche non dire, lasciando da parte il termine stesso di ‘idea’ senza che, per questo, la tua perfezione venga conosciuta meno bene.

E ciò perché la tua essenza è la ragione perfetta per conoscere tutto ciò che è conoscibile sotto qualsiasi determinazione.

Parli pure di idee, chi lo desidera; quanto a me, non intendo discutere qui di questa parola greca e platonica1.[133]

Oltre le cose suddette, attribuite a Te dai Filosofi, i Cattolici ti proclamano spesso onnipotente, immenso, onnipresente, giusto e misericordioso, provvidente per tutte le creature, specialmente per quelle intellettuali: perfezioni, queste, che verranno studiate nel prossimo trattato.[134]

In questo primo trattato, infatti, ho cercato di vedere come i tuoi attributi metafisici possano, in qualche modo, esser dedotti con la sola ragione naturale.

Nel trattato seguente studierò gli attributi che sono oggetto di fede, attributi che sono impervii alla ragione, ma che per i Cattolici sono tanto più certi in quanto non si fondano sul nostro intelletto vacillante e cecuziente per molte cose, ma si basano sulla tua solidissima verità.

C’è, tuttavia, un attributo che esaminerò qui e con cui terminerò quest’opuscolo: la tua unicità.

157.  Undecima conclusione: Tu sei il Dio unico; fuori di Te non ce n’è alcun altro, come hai detto per mezzo del tuo profeta.[135]

Non credo che manchino ragioni per dimostrare questa conclusione. Per dimostrarla di fatto, stabilisco cinque proposizioni ciascuna delle quali, una volta provata, implica la conclusione principale.

La prima proposizione è: l’intelletto infinito è numericamente uno. La seconda è: la volontà infinita è numericamente una. La terza è: la potenza infinita è numericamente una. La quarta è: l’essere necessario è numericamente uno. La quinta: la bontà infinita è numericamente una.

Che da ciascuna di queste proposizioni risulti la conclusione suddetta, è abbastanza evidente. Dimostriamole, ora, per ordine.

158.  L’unicità di Dio dedotta dall’infinità dell’intelletto.

L’intelletto infinito conosce ogni essere perfettissimamente, cioè secondo tutta la sua intelligibilità e, nel suo atto conoscitivo, non dipende da alcun altro essere, altrimenti non sarebbe infinito.

Del resto, se gli intelletti infiniti fossero due — A e B — nessuno di essi avrebbe l’atto conoscitivo perfettamente indipendente. Infatti, supponendo che A conosca B per mezzo dello stesso B, è evidente che A dipende da B nel suo atto conoscitivo, perché ogni atto dipende dall’oggetto a meno che atto e oggetto non siano identici.

Supponendo, invece, che A conosca B per mezzo di se stesso, allora B non è conosciuto in tutta la sua intelligibilità, perché nessuna cosa è presente in maniera così perfetta come quando lo è per mezzo di se stessa o per mezzo d’un essere che la contenga in maniera sovreminente.

Ma A non contiene B.

Se dici che A è simile a B, allora osservo che la conoscenza basata sulla somiglianza è solo una conoscenza universale, una conoscenza proporzionata al grado di somiglianza.

Per mezzo di questa non si colgono le ragioni specifiche per le quali gli oggetti si distinguono.

Inoltre, la conoscenza universale non è intuitiva, ma astratta.

Ora, la conoscenza intuitiva è più perfetta di quella astratta.[136] Infine, lo stesso atto non può avere due oggetti adeguati; ma A è l’oggetto del proprio atto conoscitivo; perciò, non potrà avere come oggetto adeguato B.

159.  L’unicità di Dio dedotta dall’infinità della volontà.

La volontà ama ciò che è sommamente amabile. Ma A non amerebbe sommamente B, sia perché naturalmente ama di più se stesso — e, in tal modo, si amerebbe con volontà libera e retta —, sia perché altrimenti troverebbe la propria felicità in B, pur essendo felice anche se B fosse distrutto. Ma è impossibile che uno stesso essere possa trovare la felicità suprema in due oggetti, cosa che avverrebbe se A amasse sommamente B.

Infatti, se A non considerasse B come un mezzo, lo considererebbe come un fine e, quindi, troverebbe in lui la sua felicità.

160.  L’unicità di Dio dedotta dall’infinità della potenza.

Se vi fossero due potenze infinite, ciascuna sarebbe prima rispetto alle stesse cose, perché la dipendenza essenziale si riferisce alla natura e a tutto ciò che essa contiene.

Ma le stesse cose non possono dipendere da due esseri primi, come risulta dalla sedicesima conclusione del terzo capitolo.[137]

Dunque, non ci possono essere più capi, altrimenti o la loro coesistenza è impossibile o a ciascuno sarà sottratta parte dei suoi poteri e governerà parzialmente. In tal caso, bisognerebbe vedere da chi è . unificato il loro governo.[138]

161.  L’unicità di Dio dedotta dalla necessità ontologica e dalla bontà infinita.

La quarta proposizione, relativa all’essere necessario, si dimostra così: una specie moltiplicabile, si può moltiplicare all’infinito.

Ora, se l’essere necessario fosse moltiplicabile, ci potrebbero essere infiniti esseri necessari. Se, poi, potessero esserci, ci sarebbero anche di fatto, perché ciò che è necessario, se non esiste effettivamente, non può neppure esistere.

La quinta proposizione relativa alla bontà, si prova nel modo seguente: più esseri buoni sono migliori di uno solo quando uno aumenta la bontà dell’altro.

Ma non c’è un essere migliore del bene infinito.

A partire da ciò, si ragiona così: ogni volontà trova la sua piena soddisfazione in un bene infinito. Se, per ipotesi, vi fosse un secondo bene infinito, la volontà potrebbe ragionevolmente desiderarli tutt’e due.

Perciò, non sarebbe pienamente soddisfatta in uno solo.

Si potrebbero addurre anche altre ragioni, ma per il momento bastino quelle che abbiamo addotte.

162.  Elevazione finale.

Signore, Dio nostro, Tu sei uno per natura. Tu sei uno di numero. In verità, hai detto bene che fuori di Te non c’è altro Dio.[139]

Infatti, anche se di nome ci sono molti dèi, Tu sei l’unico Dio per natura.

Tu sei il Dio vero, dal quale, nel quale e per il quale sono tutte le cose.

Tu sei il Dio benedetto nei secoli. Così sia.

Fine del trattato « Il Primo Principio degli esseri » di Giovanni Duns Scoto.