[2] Cfr. Es. 3, 14.
[3] L’essere vero è ciò che esiste come realtà indipendentemente dal pensiero: « loquitur (Avicenna) de fluxu formarum a Deo in quantum intellectae sunt, et de fluxu omnis eius quod est (hoc est, rei in vero esse); et concedo quod sicut aliud ‘esse’ est intellectui in quantum intellectum, ab esse vero (quod est essentiarum extra animam), ita est fluxu ‘iste et ille’ alius et alius... ». Cfr. Ord. I d. 36 n. 66. Per una maggiore illustrazione del concetto di essere, si veda la nota 5 di questo stesso capitolo.
[4] Sono qui indicati: lo scopo del trattato (conoscere Dio); il modo di raggiungerlo (la ragione) e il punto di partenza (l’ente con le sue proprietà).
[5] L’ente, punto di partenza della ricerca, domina l’intero trattato. Di qui,
la sua importanza per la comprensione del trattato stesso. Poiché,
però, lo Scoto non ha fornito in nessuna opera una trattazione organica
ed esauriente della propria concezione dell’essere, gli studiosi sono indotti
a ricostruirla attraverso innumerevoli indicazioni occasionali e a interpretarla
nel contesto dell’intera riflessione scotista. Per questo le conclusioni cui
giungono non sono sempre concordi. Così il D. DE
BASLY (cfr. Scotus docens ou Duns enseignant la
mystique. La construction doctrinale du B. Docteur Subtil, Paris, Le
Havre, 1934, p. 19) che giunge al concetto di ente attraverso una duplice
astrazione, e S. BELMOND (cfr. Dieu existence et
conoscibilité, Paris, 1913, p. 237-8, n. 3), ritengono che la
nozione di ente significhi soltanto l’esistenza indeterminata, desessenziata,
in quanto è di tutti e di nessuno in particolare. Il R. DE COUCERAULT (cfr. L’ontologie
de Duns Scot et le principe de pantheisme, in Et. Franc.,
XXIV (1910), 429 ss.) considera il concetto di ente come l’equivalente di
esistente, con l’accento posto piú sull’esistenza che sull’essenza.
Della stessa opinione ci sembra la scrittrice B. DE
SAINT-MAURICE, che forse sottolinea
un píú marcato concretiamo, sotto le apparenze di un esagerato
astrattismo, di cui appare rivestita l’intera speculativa del Sottile. F.
FACHLER (cfr. Der Seinsbergriff in seiner Bedeutung
fur die Gotteserkenntnis des Duns Scotus, Augsburg, 1932, p. 28) e T.
BARTH (cfr. De fundamento univocationis apud Jo.
Duns Scotum, in Ant. XIV 5 (1939), 287), (almeno nel citato studio
sul fondamento dell’univocazione dell’ente, dove espressamente afferma che
« prae aliis Fachler opinionem Scoti optime reddidit », p. 287)
considerano l’ente come essenza tendente attitudinalmente all’esistenza nelle
questioni della esistenza di Dio; e come essenza pura e indeterminata, nelle
altre questioni di carattere metafisico.
Il MASTRIO (cfr.
In XII Aristotelis Stagiritae libros Metaphysicos, Venetiis, 1688,
p. 1, disp. 2, n. 1, p. 29), il BOVIN (cfr. Philosophia
Scoti, Metaphysica, I, d. I,, Venetiis, 1598, p. 435), il RADA (cfr. Controversiae Theologicae inter S. Thomam et
Scotum, contr. 21, a. 2, Venetiis, 1598, p. 435) fra gli antichi il RADONIC, (cfr. Sinteza Skotove filosofie, Acta
primi congressus, in Colect. Franc. Slavica, 1 (1937),
225 e l’illustre GILSON E. (cfr. Jean Duns Scot.
Introduction à ses positions fondamentales, Paris, 1952), che
ha sottoposto a superlativo vaglio d’indagine l’opinione, fra i moderni, ritengono
che il concetto di ente formalmente significhi soltanto essenza, quidditas,
senza esplicito richiamo alla nozione di esistenza, connotata però
e soltanto implicitamente.
Fra le sentenze menzionate, ci sembra
piú aderente allo spirito dell’intera speculativa del Dottor Sottile
quella che ritiene l’ente come l’equivalente della essenza pura, di cui però
l’esistenza è una modalità, non formalmente connotata ma ad
essa indissociabilmente vincolata, quindi come l’essenza di un’essenza esistente
(cfr. TODISCO O., La nozione metafisica di essere...,
o. c., pp. 28-29).
Dopo questa rassegna di opinioni, ci
sembra opportuno puntualizzare, per quanto è possibile, con le stesse
parole del Dottor Sottile, il significato di ente, essere, essenza e esistenza.
(1) La nozione di ente.
Secondo lo Scoto, l’ente è un
dato di evidenza: « Ens per nihil notius explicatur » (cfr. Ord.
I, d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 132). Etimologicamente il termine può essere
preso in senso partecipabile o in senso nominale. Nel primo caso, indica
l’esercizio attuale dell’esistenza; nel secondo, il soggetto dell’essenza:
« Solet antiquitus dici, quod ens potest esse participium vel nomen;
ens participium significat idem quod existens, quia tenet significatum verbi
a quo descendet; ens nomen forte significat habens essentiam, illud dividitur
in decem genera » (cfr. Super librum I Perihermeneias, q. VIII,
n. 10). Come concetto l’ente ci viene dall’esperienza per via di astrazione:
« nam conceptus entis includitur in conceptu creaturae; intellectus
igitur in concipiendo hoc ens, ut album aut lapidem, ascendendo et abstrahendo
potest cognoscere intentionem entis, ibi sistendo » (cfr. Lectura
I, d. 3, p. 1, q. 1-2, n. 56). La sua prima caratteristica è quella
di essere un concetto assolutamente semplice, di essere incluso in tutti e,
quindi, di essere il primo concetto concepibile in maniera distinta: «
Nihil concipitur distincte nisi quando concipiuntur omnia quae sunt in ratione
eius essentiali; ens includitur in omnibus conceptibus inferioribus quiditativis;
igitur nullus conceptus inferior distincte concipitur nisi concepto ente.
Ens autem non potest concipi nisi distincte, quia habet conceptum simpliciter
simplicem. Potest ergo concipi distincte sine aliis, et alii non sine eo distinte
concepto. Ergo ens est primus conceptus distincte conceptibilis »
(cfr. Ord. I, d. 3, q. 1-2, n. 80). Perciò, è univoco
nel senso che possiede una tale unità che, qualora fosse affermato
e negato in una stessa proposizione, darebbe luogo ad una contraddizione:
« Ne fiat contentio de nomine univocationis, univocum conceptum
dico, quia ita est unus quod eius unitas sufficit ad contradictionem, affirmando
et negando ipsum de eodem » (cfr. Ord. I d. 3, p. 1, q. 1-2,
n. 26). La prima distinzione che riguarda l’ente è quella che rileva
la differenza tra l’ente mentale e l’ente extramentale: « Prima distinctio
entis videtur in ens extra animam et in ens in anima, et illud ‘extra animam’
potest distingui in actum et potentiam (essentiae et existentiae), et quodcumque
istorum esse ‘extra animam’ potest habere esse in anima, et illud esse ‘in
anima’’ aliud est ab omni ‘esse extra animam’ » (cfr. Ord. I,
d. 36, q. un. n. 36). L’ente mentale, del tutto sganciato dalla realtà
extramentale, è detto anche ente di ragione e costituisce l’ordine
logico; l’ente mentale rappresentativo della realtà, invece, forma
l’ordine gnoseologico: l’ente extramentale è detto anche reale in atto
o in potenza e costituisce l’ordine ontologico, accessibile a livello fisico
o metafisico. Nell’ordine ontologico, l’ente è singolarizzato, mentre
in quello gnoseologico è universalizzato. Ma a livello metafisico possiede
una sua realtà che antecede le modalità del singolare e dell’universale.
La sua realtà, a tale livello, non è completa e perfetta, ma
costituisce un’unità di natura chiamata “natura comune”. Questa «
in quanto è indifferente a qualunque determinazione, considerata
però nel plesso delle sue concrete modalità, quindi in potenza
remota a “dici de multis”, rappresenta l’universale fisico, soggetto remoto
dell’universale logico; considerata poi nello stato attuale e positiva indeterminazione,
sì da opporsi essenzialmente ad ogni contrazione individuale, in potenza
quindi prossima a “dici de multis”, rappresenta l’universale metafisico;
considerata infine in rapporto agli inferiori di cui di fatto si predica,
svestendosi di ogni residuo di potenzialità, rappresenta l’universale
logico » (cfr. TODISCO O., La nozione metafisica...,
o. c., p. 23).
Alla prima distinzione dell’ente fa
riscontro la divisione dell’ente nei modi finito e infinito e nelle dieci
categorie, riguardanti solo l’ente finito: « ens primo dividitur in
infinitum et finitum quam in decem praedicamenta » (cfr. Ord.
I, d. 8, p. 1, q. 3, n. 113).
(2) La nozione di essere.
Poiché l’ente si può
considerare anche ciò cui non ripugna l’essere ( « Ens hoc est,
cui non repugnat esse » (cfr. Ox. IV, d. 8, q. 1, n. 2), si
potrebbe dire che l’essere è la positività dell’ente: «
Esse potest intelligi illud quo formaliter aliquid recedit a non esse »
(cfr. Quodl., q. 9, n. 17). Per questo, si avranno a proposito dell’essere,
le distinzioni e le divisioni già riscontrate a proposito dell’ente.
Pertanto, si ha un essere nella mente e un essere fuori della mente: il primo
è detto ora essere intelligibile, ora essere producibile secondo che
sia solo contenuto dell’atto conoscitivo o dell’atto volitivo (cfr. Lectura
I, d. 39, n. 93: « Dicendum quod intellectus divinus in primo instanti
videns essentiam suam, videt omnes res secundum earum esse intellegibile,
quia tunc constituitur in esse intellegibili, sed adhuc non habent esse in
esse producibili antequam habeant esse volitum a voluntate »);
il secondo è detto ora essere reale, ora essere vero, ora essere in
maniera pura e semplice. L’essere reale, poi, può essere attuale o
potenziale, tenendo conto che la potenza e l’atto, non si trovano nel rapporto
di una comune relazione che sussiste con i due estremi, ma che la potenza
è tale solo finché l’atto, che ne è il termine, è
ancora da realizzarsi. Una volta che l’essere reale sia in atto, la potenza
cessa di essere reale e rientra nella sfera dell’ordine logico: « licet
enim concedatur potentia, scilicet obiectiva, praecedere actum, non tamen
ipsa est in aliquo actu reali » (cfr. Ox., d. 1, q. 2, n. 10).
L’essere attuale, l’unico ad essere veramente reale, è quindi finito
o infinito, secondo il modo che gli è proprio. L’essere reale finito,
infine, si articola nelle dieci categorie della classificazione aristotelica
(sostanza, quantità, qualità... ecc.). Per chiarire il nucleo
intellegibile del concetto di essere, lo Scoto ripete spesso che è
un modo esso pure, come la finitezza o l’infinità, ma un modo ora dell’essenza
ora dell’esistenza: « Esse non est accidens quia non est ens proprie,
sed modum essendi, et ideo est in eodem genere, in quo est essentia... esse
est modus essentiae sine quo essentia non potest intelligi » (cfr.
Super librum II Posteriorum, q. 6, n. 3); « Esse quod est actualiter
entis, non est de essentia. Huius potest esse duplex ratio. Prima quia esse
est modus essentiae » (cfr. ibidem, n. 2). In definitiva,
« esse potest intelligi illud quo formaliter aliquid recedit a non
esse » (cfr. Quodl., q. 9, n. 17).
(3) La nozione di essenza.
L’essenza si comprende attraverso l’essere
così come la volontà si comprende attraverso il volere e ciò
poiché « esse immediatius se habet ad essentiam quam velle ad
voluntatem » (cfr. Ox. III, d. 6, q. 1, n. 7). Per sé,
essa astrae sia dalla possibilità dell’essere mentale sia dall’attualità
dell’essere attuale, poiché l’essere ne è un modo, e può
essere concepita senza l’esistenza, poiché questa ne è un complemento,
ma non è adeguatamente concepita senza l’essere e priva dell’esistenza.
Nel suo nucleo peculiare, « essentia est ratio formalis... essendi
simpliciter » (cfr. Quodl., q. 1, n. 7).
(4) La nozione di esistenza.
L’esistenza, infine, è l’esercizio
attuale dell’essere e, quindi, l’attuazione dell’essenza: « actualis
autem existentia est ultimus actus » (cfr. Ox. II, d. 3, d.
3, n. 3). Lo Scoto esclude che possa costituirsi una coordinazione di esistenze
diversa da quella delle essenze, poiché l’essere dell’esistenza non
racchiude che l’essere dell’essenza. Poiché l’essenza esiste solo dal
momento in cui è prodotta, prima dell’atto produttivo, essenza ed
esistenza, di natura loro, sono un puro nulla. Dopo l’atto produttivo, invece,
sono realmente la stessa cosa: « esse est idem realiter cum essentia
» (cfr. Ox. II, d. 16, q. nn., n. 4). In effetti, l’esistenza
è un modo dell’essenza, la misura intrinseca della intensità
entitativa dell’essere essenziale.
[6] Lo Scoto dice che l’essere ha molte proprietà. Non le enumera espressamente, ma si intravede facilmente a che cosa pensi. Anzitutto, proprio perché essere, ogni ente è sempre un essere nel senso che possiede una sua interna unità e una sua precisa distinzione da ciò che non è essere, come pure da ciò che è un altro essere. Inoltre, ogni essere come tale è vero o conforme a un’intelligenza e assimilabile dall’intelligenza nel senso che racchiude e, quindi, può suscitare un’idea ed è buono nel senso che la perfezione, da esso racchiusa, gli conviene o rappresenta un bene per esso. Ogni essere è buono per se stesso, giacché la sua esistenza è qualcosa che gli conviene. Unità, verità e bontà sono tre proprietà dell’essere, tre proprietà trascendentali nel senso che il loro contenuto è identico a quello dell’essere stesso o nel senso che la loro comprensione e la loro estensione sarà illimitata proprio come quella dell’essere.. Unità, verità e bontà non rappresentano, rigorosamente parlando, nuovi aspetti dell’essere, ma rappresentano nuovi aspetti intelligibili dell’essere stesso o danno luogo a concetti diversi da quello di essere (cfr. A. B. WOLTER, The Transcendentals..., o. c., pp. 100-127). Ma per elaborare la filosofia di Dio, lo Scoto non considera direttamente le proprietà precedenti, ma quelle che egli chiama proprietà disgiuntive. Queste sono quegli attributi che si possono attribuire universalmente all’essere quando è preso disgiuntivamente. Dai vari scritti del Dottor Sottile si può ricavare la seguente lista di proprietà disgiuntive: indipendente-dipendente (cfr. Ord. Prol., p. 3, q. 1-3, n. 194), necessario-contingente (cfr. Ord. I, d. 8, p. 1, q. 3, n. 115), assolutorelativo (cfr. Ox. II, d. 1, p. 4, n. 15), infinito-finito (cfr. Ord. I, d. 8, p. 1, n. 113), anteriore-posteriore (cfr. De Primo Principio, c. 1, passim), finiens-finitum (cfr. ivi, c. 2), attuale-potenziale (cfr. Ord. I, d. 8, p. 1, q. 3, n. 115), semplicecomposto (cfr. Ord. Prol., p. 3, q. 1-3, n. 194), uno-molteplice (cfr. Ox. III, d. 1, q. 3, n. 3), causa-causato (cfr. Ord. I, d. 39, n. 13), efficiente-effetto (cfr. De Primo Principio, c. 2-3, passim), eccedente-ecceduto (cfr. ivi), sostanza-accidente (cfr. Ord. I, d. 8, q. 3, n. 134), simile-diverso (cfr. Ord. I, d. 19, q. 1, n. 8), eguale-ineguale (cfr. ivi). Il processo della deduzione degli attributi dall’essere è, comunque, descritto dallo Scoto nella dist. 39 della Lectura (cfr. Lect. I, d. 39, q. 1-5, n. 39 ss). COsì, ogni essere è finito o infinito; contingente O necessario; causato o incausato; posteriore o anteriore. Nessuno dei due membri, preso separatamente, è una vera proprietà dell’essere come tale, perché non si può dire che ogni essere è infinito, né si può dire che Ogni essere è finito. Ma, nella disgiunzione, finitezza e infinità sono coestensive con l’essere, nel senso che non v’è alcun essere che non sia finito o infinito; causato o incausato; contingente o necessario; posteriore o anteriore. La proprietà rappresentata dall’ordine essenziale è, appunto, una proprietà disgiuntiva perché rileva che ogni essere è anteriore O posteriore. Essa si impone all’intelligenza a partire dall’esperienza della molteplicità degli esseri. La nozione di Ordine, infatti, è inconcepibile senza la distinzione che nasce dalla pluralità e senza la somiglianza che soggiace alla pluralità e postula l’unità come suo presupposto fondamentale. Perché lo ScOto considera l’ordine essenziale come la dimensione dell’essere piú adatta per elaborare la filosofia di Dio? In primo luogo, perché si accorge che l’essere noi lo cogliamo negli esseri tra i quali l’ordine essenziale, grazie al suo carattere disgiuntivo, rappresenta un legame che distingue e unifica nello stesso tempo. In secondo luogo, perché se il termine meno nobile di tale disgiunzione appartiene a un essere concreto, bisogna concludere riflessivamente che il termine piú nobile appartiene pure ad un essere determinato ed esistente (cfr. J. DUNS SCOTI, Ord. I, d. 39, q. u., n. 13). Così, se ci sono esseri posteriori nella linea della perfezione o dell’esistenza ci devono essere anche esseri anteriori nella linea rispettiva e, piú particolarmente, se ci sono esseri finiti, deve esistere anche un Essere infinito.
[7] Probabilmente lo Scoto ha presente le diverse concezioni della divisione: la platonica (cfr. Sofista, 253d) secondo cui la divisione è il metodo che permette una corretta definizione; l’aristotelica (cfr. Analitici primi I, 46a, 31 ss) e la stoica (cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite dei Filosofi, a cura di M. Gigante, Bari, 1962, I. VII (VIII). Egli, però, sembra valersene attraverso la sintesi Originale di Boezio (cfr. BOEZIO, Trattato sulla divisione, a cura di L. Pozzi, Padova, 1969), mirando alla divisione secundum se del tutto nelle parti.
[8] Aristotele (cfr. Metafisica XII c. 7, 1072a 18 - 1073a 13) è il principale esponente di tale concezione; ritiene, infatti, che tutte le cose siano in relazione con il Primo Movente immobile, mentre questi non avrebbe alcuna relazione con l’universo. « Concedit enim (Aristoteles) Omnia habere ordinem essentialem inter se et magis ordinem essentialem ad unum primum. Nunc autem, infinitum intensive non potest esse subordinatum essentialiter alicui rei » (cfr. Quodl., q. 7, 40). Ma il Dottor Sottile sa pure che una posizione simile è condivisa anche dagli averroisti giacché anch’essi pensano che la « causalitas primae causae est immediate perfecta, et ideo posuerunt eam non posse immediate esse causam alicuius effectus imperfecti » (cfr. Ord. I, d. 42, q. un., n. 10).
[9] In senso lato, l’ordine essenziale è una relazione di equiparanza. Ciò significa, come spiega altrove lo Scoto, che gli estremi collegati dalla relazione si riferiscono a un elemento comune rispetto al quale si definisce la loro identità. Così, per es., non si può dire che l’uomo sia un uomo diverso dall’asino, ma un animale diverso dall’asino, l’animale essendo elemento che li accomuna, per un verso, e rispetto al quale si diversificano, per un altro: « In omnibus istis determinabile distinctions, sive expressae singularitatis vel pluralitatis, oportet esse commune utrique extremo, — patet in omnibus exemplis, quia homo non est ‘alius homo ab asino’ sed ‘aliud animal’. Istud probatur ratione, quia in relationibus aequiparantiae extrema sunt eiusdem rationis; alietas est talis relatio; ergo in quibuscumque ‘aliis’ est alietas minus rationis, mutua, et per consequens determinabile alietatis erit minus rationis » (cfr. Ord. I, d. 8, p. 1, q. 3, n. 84).
[10] L’espressione « ordine essenziale » è equivoca nel senso che serve ad indicare, nello stesso tempo, due tipi diversi di ordine come quello di eminenza e quello di dipendenza. Ambedue sono costituiti da un anteriore e da un posteriore. Ma, nell’ordine di eminenza, anteriore significa « piú perfetto » e posteriore « meno perfetto », mentre, nell’ordine di dipendenza, anteriore è « ciò da cui una cosa dipende » e posteriore « ciò che dipende ».
[11] L’idea di piú perfetto e piú nobile introduce una nozione che lascia intendere come la ‘perfezione’ e la ‘nobiltà’ siano concepite in rapporto a qualcosa di assoluto e, quindi, implicano una previa conoscenza di ciò che è sommamente perfetto. Questo problema ricorrerà in connessione con la teoria delle perfezioni pure. Per il momento, l’ordine di eminenza può essere inteso semplicemente come una differenza nella linea della qualità o quantità dell’ente.
[12] Cfr. ARISTOTELE, Met. I, 8, 989a, 15-6: « Quel che è posteriore nella generazione, è invece anteriore per natura » (cfr. ARISTOTELE, La Metafisica, a cura di A. Carlini, Bari, 1959, pp. 39-50). Cf. Met. IX, 8, 1050a 4-5: « Ma riguardo alla sostanza, l’atto è prima della potenza: prima di tutto, perché quello che per il divenire è l’ultimo, per la forma sostanziale è primo. Per esempio, l’adulto è anteriore al fanciullo, e l’uomo allo sperma: l’uno ha già realizzato la specie che l’altro non ha ancora » (ed. Carlini, p. 311). Salvo indicazioni contrarie, ogni riferimento alla Metafisica di Aristotele rinvierà all’edizione curata dal Carlini. La traduzione, però, è per lo piú nostra. Come appare dal testo, lo Scoto riferisce genericamente il libro nono della Metafisica. In realtà, egli ha presenti parecchi punti dell’opera aristotelica, specialmente dei libri VII (cfr. Met. VII, 1028; ed. Carlini, pp. 217-75) e VIII (cfr. Met. VIII, 1042a-1046a; ed. Carlini, pp. 277-92) e dello stesso libro IX (cfr. Met. IX, 1046-1052; ed. Carlini, 293-321), cioè dei libri che costituiscono una specie di trilogia della « sostanza », nei quali lo Stagirita esamina i problemi relativi all’atto e alla potenza. In tale contesto, Aristotele, dopo aver definito la natura della potenza (ed. Carlini, pp. 293-303) e dell’atto (o. c., pp. 303-9), procede all’esame dei rapporti esistenti tra le due categorie. Lo Scoto se ne vale per tematizzare i rapporti d’anteriorità e di posteriorità, lasciando da parte le relazioni d’ordine accidentale e centrando l’attezione su ciò che fa l’anteriorità e la posteriorità essenziale sotto il duplice aspetto: della perfezione e della dipendenza.
[13] Il Dottor Sottile riduce la relazione di dipendenza a quella di causalità, sottolineando l’indipendenza della causa rispetto all’effetto: « A nullo aliquid dependet essentialiter quo non existente nihil minus esset » (cfr. Ord. I, d. 2, p. 1, q. 3, n. 173); « simpliciter enim necessario causare includit contradictionem » (cfr. Ox. II, d. 1, q. 3, n. 12). Per un’ulteriore analisi di questo punto cfr. A. B. WOLTER, The Trascendentals..., o. c., pp. 142. 144.
[14] Cfr. ARISTOTELE, Met. V, 11, 1019a 1-5: « Altre cose si dicono anteriori e posteriori secondo la natura e la sostanza: quelle anteriori possono esistere senza le posteriori, ma queste non possono esistere senza quelle. Distinzione, questa, di cui fece uso Platone » (ed. Carlini, p. 173).
[15] Lo Scoto riferisce di peso la citazione aristotelica di Platone, come appare dalla nota precedente. In realtà, come rileva Carlini (o. c., p. 173, n. 80), non si trova nelle opere di Platone un punto al quale riferisce questa citazione.
[16] È la verità comunemente espressa dal noto aforisma latino: « Quae conveniunt uni tertio, conveniunt et inter se ».
[17] L’interpretazione di questo punto é piuttosto difficile. «
Perhaps, commenta il Prentice, we can simplify the explanation. A certain
prior cause, Y, produces proximately B. Y also produces A. A, in turn, produces
proximately C. Now, Scotus says, C depends upon B, on condition that Y has
to produce B before it is able to produce A. Thus C depends upon B, even though
there is no direct causal connection between the two of them, but it depends
upon B as upon a chosen effect of a common cause which is the proximate cause
of B but the remote cause of C » (cfr. R. PRENTICE,
The basic Quidditative..., o. c., 89). W. Kluxen ritiene
che l’esatta traduzione sia quella di F. Alluntis, che suona così:
« Por ejemplo, supongamos que la causa próxima de un effecto,
A, no es bajo ningún respecto la causa de otro efecto, B, pero una
causa anterior es la causa próxima de B y es la causa remota de A
(cuya causa próxima es otra) » (cfr. F. ALLUNTIS,
Tratado acerca del Primer Principio in Obras del Doctor Sutil J. Duns
Escoto. Dios uno y trin, BAC, Madrid, 1960, p. 600). E lo stesso
Kluxen commenta « Dieser Satz ist nur dann klar, wenn man die Bezeichnungen
‘A’ and ‘B’ auf das ‘prius causatum’ (A) and das ‘posterius causatum’ (B)
bezieht, and das scheint mir zwingend; denn es gehet un deren ‘ordo
essentialis’. Natürlich ist es dann ein etwas schwieriger Gedanke, dass
die ‘causa communis’ ausgerechnet fur das ‘posterius’ die ‘causa proxima’
sein soll, fur das ‘prius’ jedoch nur ‘causa remota’ während das Verhältnis
zur causa ‘proxima’ des ‘prius’ gänzlich, unbestimmt bleibt (sie soll
nur mit denti ‘posterius’ nichts zu tun haben!). Gerade dadurch wird aber
der lange Nachsatz erforderlich, der die zugehörigkeit eben dieses
Verhältnisses zum ‘ordo essentialis’ unterstreicht » (cfr. W.
KLUXEN, Welterfahrung und Gottesbeweis...,
AA. VV., Deus et Homo ad mentem I. Duns Scoti, Romae, 1972,
p. 51, nota 23). Per parte nostra, ci sembra ancora valido l’esempio che
il Kluxen giudica improprio. A nostro giudizio, l’ipotesi tende a mettere
in luce la seconda combinazione possibile nella linea del condizionamento.
La prima spiegata nel paragrafo precedente, prevedeva che una causa (A) volesse
produrre un effetto (C), ma che potesse produrlo solo dopo aver prodotto
un altro effetto (B). Sicché, C dipendeva da B come da una sua condizione
essenziale e A era causa prossima di B prima di diventarlo di C. Schematicamente:
A (causa) —> B (effetto-condizione) —> C (effetto-condizionato).
La seconda combinazione prevede che
una causa (A), dopo aver prodotto un effetto (B), ne produca un secondo (C),
il quale, divenendo causa a sua volta, produca un altro effetto (D). In questo
caso, D dipende da B perché, se B non é prodotto, non può
essere prodotto C e, di conseguenza, neppure D. Sicché B é condizione
essenziale di D. Schematicamente: A (causa comune) —> B (effettocondizione) —>
C (effetto-condizionato-causa) —> D (effetto-condizionato). Se non andiamo
errati, questa volontà dello Scoto di esplorare fino in fondo le propaggini
dell’ordine essenziale di dipendenza, oltre che alla particolare finezza del
suo ingegno che gli valse il titolo di « Dottor Sottile », risponde
a due esigenze: una speculativa, di cogliere in maniera radicale ed esauriente
le connessioni essenziali tra gli esseri; e una storica, di poter far rientrare
nell’ordine essenziale di dipendenza da « Il Primo Principio degli
esseri » l’universo nella sua totalità, anche se questo non
si volesse considerare, come pensano alcuni Filosofi — tra i quali Avicenna
—, effetto immediato della Causa Prima.
[18] Della causalità lo Scoto ha trattato molto spesso. Tra i passi piú significativi si possono indicare i seguenti: Ox. IV, d. 1, q. 1, nn. 7 9-10 26 27 28; Ox. II, d. 37, q. 1-2 passim, specialmente q. 2, nn. 14 15-16; Ord. I, d. 2; p. 1, q. 1-2, n. 40; ibid., d. 8, p. 2, q un., nn. 240-241; Lectura I, d. 2, q. 1-2, nn. 39-40; ibid., d. 8, p. 2, q. un., n. 211; Rep. I, d. 2, q. 2, n. 3; ibid., d. 8, q. 3, n. 10. Anche il commento alla Metafisica é una fonte speciale per la dottrina intorno alla causazione. Così, In Metaph. I, q. 1, n. 25; ibid. II, qq. 45 passim; ibid. V, qq. 1-3; ibid. VI, q. 5; ibid. IX, qq. 2, 4, 11. Di queste tre questioni sono particolarmente importanti i nn. 2-6 della q. 4 e il n. 4 della q. 11 (cfr. P. SCAPIN, La causalità nel pensiero di Scoto in AA. VV., Contributi Scotistici..., o. c., pp. 103-146).
[2] Nei Secondi Analitici (cfr. Post. Analyt., c. 3, 72b-73a), Aristotele scrive: « Quanto a noi, affermiamo, innanzitutto, che la determinazione dimostrativa non appartiene ad ogni scienza e che, per contro, la scienza riguardante le premesse immediate prescinde dalla dimostrazione... Del pari è evidente l’impossibilità di sviluppare una dimostrazione in senso assoluto, una dimostrazione cioè che risulti circolare, dal momento che la dimostrazione deve costituirsi sulla base di premesse anteriori e più note. è infatti, impossibile che degli stessi oggetti siano simultaneamente anteriori e posteriori ad altri oggetti, a meno che non si voglia intendere l’anteriorità e la posteriorità in modo differente, dicendo, per esempio, che taluni oggetti sono anteriori rispetto a noi e che altri lo sono in senso assoluto » (cfr. ARISTOTELE, Organon, a cura di G. Colli, Torino, 1955, pp. 283-6).
[3] La circolarità dell’ordine è impossibile anche nell’ambito della realtà. Le ragioni derivano sempre dalle proprietà dell’ordine: 1) x non è relativo a x; sarà relativo a y, non a se stesso perché ciò distruggerebbe la sua unità essenziale, implicando che è uno e due nello stesso tempo; 2) se a è anteriore a b e b anteriore a c, a è anteriore anche a c; 3) tutto ciò esclude l’ipotesi d’una circolarità. Infatti, se x dipende da y e y dipende da x, ne risulterebbe che x dipende da sé e, quindi sarebbe relativo a se stesso, cioè anteriore e posteriore insieme, il che è assurdo. In altre parole, la serie che nasce dall’ordine essenziale è necessariamente asimmetrica o, come dicevamo nell’Introduzione (cfr. pp. 39-40), l’ordine essenziale è una relazione mutua al livello dell’essenza, non però al livello dell’esistenza.
[4] Storicamente, quest’affermazione rappresenta il risultato della critica aristotelica (cfr. Met. IV, 4, 1007a-b) alla posizione dei sofisti secondo i quali tutto sarebbe accidentale. Assimilando l’accidente al predicato, Aristotele rileva che « se si dice che tutto è accidentale, non ci sarà nulla di primo che funga da soggetto degli accidenti » (cfr. ivi; ed. Carlini, p. 123).
[5] La priorità dell’essenziale sull’accidentale vale non solo nell’ambito dell’essere, ma anche in quello dell’agire e l’autorità d’Aristotele è addotta, qui, per confermare appunto tale validità. Cfr. ARISTOTELE, Phys. II, 6, 197b 7-9.
[6] Quest’affermazione racchiude, praticamente, due verità: dice che, per esistere, un effetto deve avere una causa determinata a produrlo e che la determinazione della causa è un’intenzione. Ambedue queste verità dipendono da quella secondo cui nulla d’indeterminato esiste. Per esistere, ogni cosa deve essere determinata, altrimenti è soltanto possibile. In effetti, se consideriamo un effetto possibile, non ancora esistente, ci accorgiamo che è indeterminato rispetto all’esistenza. Per venire all’esistenza, deve perdere la sua indeterminazione. Ciò che non può avvenire senza che l’agente stesso si determini, non rispetto al proprio essere, ma rispetto al proprio agire, cioè formuli un’intenzione che si presenta come un atto immanente con terminazione esterna.
[7] Cfr. ARIST., Phys. II, 2, 194a. Lo Scoto nota che, nella natura, l’agire finalizzato sembra meno evidente di quanto esso non lo sia nell’ambito umano e ciò perché gli esseri naturali non sono individualmente dotati d’intelligenza e di volontà — le due facoltà da cui nasce il comportamento finalistico —, ma sono evidentemente predeterminati ad agire sempre allo stesso modo, con la massima intensità, a meno che fattori distorsivi non arrestino il loro dinamismo o non frustino la loro azione. (Sulla differenza tra causa naturale e causa libera, vedi: P. SCAPIN, La causalità nel pensiero di Scoto, in AA.VV., Contributi..., o. c., p. 132 ss.).
[8] Il fine è causa nel senso che è un principio che influisce realmente sull’esistenza dell’effetto. Anzi, non è solo causa, ma è la prima delle cause. Scrive Avicenna, nel punto cui si riferisce lo Scoto: « Causalitas causae finalis est causa esse aliarum » (cfr. AVICENNA, Metaphysica VI, 5, ed. Venetiis, 1495, f. 25a). Causa prima per tutti i motivi che lo Scoto elenca in questo paragrafo, prima non solo nel senso che fa passare all’azione la causa efficiente, ma anche nel senso che compenetra l’intero dinamismo causale.
[9] Cfr. ARISTOTELE, Met. V, 2, 1013b.
[10] Aristotele, per indicare il fine verso il quale tendono gli esseri, si serve di diversi termini: ora lo chiama « ciò per cui » (to hou heneka), espressione che significa non un termine qualunque, ma un termine inteso dall’agente; ora lo chiama « bene » (agathon), « il quale fu detto giustamente che è ciò verso cui tendono tutte le cose » (cfr. ARISTOTELE, Etica Nic. I, 1, 1094a; ed. Plebe, Bari, 1957, p. 3); ora lo chiama « termine » (telos), indicando così plasticamente la perfezione raggiunta, come termine d’un divenire che ad esso tendeva. Dunque, riassume lo Scoto, con la parola « fine » si possono indicare almeno tre cose: « ciò per cui si fa qualcosa », il bene da raggiungere e la perfezione raggiunta. Ciascuna possiede delle caratteristiche della causa finale, cioè del principio che influisce realmente sull’esistenza dell’effetto. Ma solo la prima è veramente causa finale, perché solo ciò che induce all’azione la causa efficiente è vera causa finale. Un esempio chiarirà meglio questa dottrina. Un orologiaio lavora per vivere; lavorando produce degli orologi e gli orologi prodotti dovrebbero misurare esattamente il tempo. Abbiamo, qui, tre fini: il fine dell’agente — l’orologiaio —; il fine dell’operazione — la produzione degli orologi —; il fine dell’opera — la misurazione del tempo. Ciascuno di questi fini indica una certa tendenza e, per questo, ciascuno merita il nome di fine. Ma solo il fine dell’agente rappresenta la vera causa finale — la causa delle cause — perché solo esso mette in moto l’intero processo causale e lo sostiene fino all’esaurimento della tendenza, cioè fino al conseguimento del bene (agathon), che si ha al termine (telos) dell’operazione.
[11] Non è facile individuare a quali scritti di Aristotele si riferisce qui lo Scoto. I più probabili sembrano: Met. V, 5, 1015b; Ib. VI, 1, 1026a; Ib. VII, 16, 1041a; Ib. XI, 6, 1063a; Ib. XII, 1, 1069a; Ib. XII, 8, 1073a; Phys. VIII, 1, 252b. Particolarmente significativi, per comprendere lo sfondo storico della questione, sono i capitoli 9-10 dell’opuscolo De Substantiis separatis (1272-73) di S. Tommaso d’Aquino.
[12] La chiave interpretativa di Aristotele è fornita dalla concezione dell’oggetto della Fisica o filosofia della natura e della Metafisica o filosofia prima. Tanto la Fisica quanto la Metafisica studiano le cause, ma in maniera diversa: « Metaphysicus enim considerat quatuor genera causarum et naturalis similiter, sed non eodem modo sicut metaphysicus, quia sicut metaphysicus in considerando abstrahit a naturali, ita causae ut considerantur a metaphysico abstrahuntur a seipsis ut considerantur a naturali philosopho. Philosophus enim naturalis cansiderat causam agentem ut est movens et transmutans materiam ut est subiectum transmutationis, et formam ut dat esse per comparationem ad actionem et motum ei proprium, et finem ut est terminus motus et transmutationis. Sed sic a causis abstrahit metaphysicus, nam metaphysicus abstrahit causam moventem ut dat esse sine motu et transmutation » (cfr. I. DUNS SCOTI, Rep. Par. I, d. 8, q. 3, n. 10).
[13] La creazione temporale delle Intelligenze è estranea ad Aristotele. Tutt’al più lo Stagirita potrebbe ammettere una produzione eterna senza contraddirsi. In effetti, non è contraddittorio affermare che una cosa è necessaria riguardo all’essenza e contingente riguardo all’esistenza (cfr. Ord. I, d. 8, p. 2, q. un., n. 239 ss.). D’altra parte, non bisogna scordare che Aristotele si fonda sul presupposto secondo cui «Deum necessario sese habere ad alia extra se, et ex hoc sequitur quod quodlibet aliud necessario se habet ad ipsum » (cfr. Ord. I, d. 8, n. 251). Per la controversia, qui appena accennata, si veda l’intera questione riguardante l’immutabilità divina nell’Ordinatio (ed. Vat., vol. IV, pp. 279-328).
[14] Avicenna definisce la creazione: « Creatio, quod est rei esse post non esse » (cfr. Met. IV, 2; ed. Venetiis, 1945, f. 23a-b).
[15] Seguendo Aristotele, dopo aver distinto la potenza logica (qualcosa è possibile quando il suo contrario non è necessariamente falso) e la potenza metaforica del linguaggio matematico, lo Scoto così propone la potenza metafisica nel suo triplice significato: « Ista potentia tripliciter accipitur. Uno modo opponitur impossibili, non quidem ut dicit modum compositionis, sicut in secundo membro distinctionis, sed ut dicit dispositionem alicuius incomplexi... et sic possibile convertitur cum toto ente; nam nihil est ens, cuius ratio contradictionem includit. Alio modo sumitur potentia ut opponitur necessario: et sic loquitur Avicenna de possibili primo Metaphysicae suae, et sic dicitur necesse quod ex se habet entitatem indefectibilem, ens possibile quod defectibilem. Tertio modo, strictissime sumitur potentia metaphysica, prout non stat cum actu circa idem, et sic loquitur Aristoteles c. 5 ubi notificat actum, quod actus est quando res est, non ita sicut in potentia » (cfr. In Met. IX, q. 2, n. 3).
[16] Cfr. Ord. I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 21: « Materia autem prima ad nullam formam inclinatur sic determinate, et ideo sub quacumque quiescit ». Sulla concezione scotista della materia si veda: E. CHIROTTI, Il concetto di materia in Duns Scoto in Giornale critico della filosofia italiana, 11 (1930), 113-34; P. STELLA, L’ilemorfismo di G. Duns Scoto, Torino, 1955; IDEM, La teoria ilemorfica nel sistema scotista, in AA. VV., De doctrina..., o. c., II, pp. 241-295.
[17] La materia prima, in sé, è pura possibilità o potenza contraddittoria e, quindi, affatto priva di attualità. Non così la materia e la forma come costitutivi reali del composto. Ambedue sono realtà, parziali e imperfette, ma vere realtà positive: « Mihi est contradictio quod materia sit terminus creationis et pars compositi et tamen non habeat aliquod esse... quod enim aliqua essentia sit extra causam suam, et quod non habeat aliquod esse quod sit essentia, est mihi contradictio » (cfr. Ord. II, d. 12, n. 16).
[18] La conclusione (ergo ab uno aliquo extrinseco) potrebbe far pensare all’influsso della causa efficiente, ma il contesto lascia intendere che lo Scoto rifletta sulla struttura del concreto e, più particolarmente, sulla determinazione che assicura l’unità della sua complessità. Se ciò è vero, il ragionamento implicherebbe il principio di individuazione che lo Scoto indica, non nella materia signata quantitate, ma nella haecceitas. Cfr. Ox. II, d. 3, q. 2, n. 4: « Necesse est per aliquod positivum intrinsecum huic lapidi, tamquam per rationem propriam, repugnare sibi dividi in partes subiectivas; et illud positivum erit quod dicitur esse per se causa individuationis... et per individuationem intelligo istam indivisibilitatem sive repugnantiam ad divisibilitatem ». Su questo punto, oltre le indicazioni della nota 16, si veda: I. TONNA, The Problem of Individuation in Scotus and other Franciscan Thinkers of Oxford in the 13th Century, in AA. VV., De doctrina..., o. c., I, p. 257-70; C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Mo yen Age, Montréal-Paris, 1944; G. CACCIATORE, L’unità dell’individuo come interiorità del concreto secondo Duns Scoto, in AA. VV., De doctrina..., o. c., II, pp. 199-228.
[19] Il rinvio, molto generico, investe la dottrina aristotelica dell’atto e della potenza, contenuta nei libri VII, VIII e IX della Metafisica che formano una specie di trilogia della sostanza. In particolare, tale dottrina è trattata nei dieci capitoli del libro IX (cfr. Met. IX, 1-10, 1046a-1052a; ed. Carlini, p. 293-321). Lo Scoto si riferisce probabilmente ai passi seguenti: Met. VIII, 1033b 16-9 (ed. Carlini, pp. 243-44); Met. VII, 11, 1036b 21-24 (ed Carlini, p. 255); Met. VIII, 6, 1045b 20-1 (ed. Carlini, p. 291); Met. VIII, 1-6, 1042a-1045b, cioè tutto il libro ottavo (ed. Carlini, pp. 277-292).
[20] Cfr. ARISTOTELE, Met. VII, 17, 1041b: « Quel che risulta composto di qualcosa in tal modo che il tutto formi un’unità, non è come un mucchio di cose, ma come la sillaba. La sillaba non è come la somma delle due lettere, ba non è lo stesso che b più a, così come la carne non è semplicemente fuoco e terra, poiché, disciolte nei loro elementi, la sillaba e la carne non ci sono più, pur essendovi la lettera come il fuoco e la terra. La sillaba, dunque, è qualcosa per sé... Nel caso che (il composto) fosse una somma, è chiaro che non sarebbe di un solo elemento, ma di molti, altrimenti si identificherebbe con quell’elemento » (cfr. ed. Carlini, p. 274). Questo deve essere uno dei passi che maggiormente hanno stimolato lo Scoto ad elaborare la sua dottrina della haecceitas. (Cfr. S 23, nota 18).
[21] La ragione di tale differenza sta nel fatto che le cause intrinseche sono parti del composto: « Causalitas materiae et formae includit imperfectionem, quia rationem partis; causalitas autem efficientis et finis nullam imperfectionem includit, sed perfectionem;... omne imperfectum reducitur ad perfectum sicut ad prius se essentialiter » (cfr. Ord. I, d. 8, p. 1, q. 1, n. 7).
[22] Cfr. S 27. La consistenza e le funzioni della materia sono così sintetizzate dallo Scoto: « Dico quod materia est per se unum principium naturae, ut dicit Philosophus I Phisychorum (cfr. Phys. I, c. 7, 191a; II, c. 1, 193a), quod est per se causa, ut dicit II Physicorum et V Metaphysicae (ib.), quod est per se fundamentum formarum, I Metaphysicae (cfr. Met. I, c. 3, 983b), quod est per se subiectum mutationum substantialium, V Physicorum (V, c. 9, 271a), quod est terminus creationis... cum enim sit principium et causa entis, oportet necessario quod sit aliquod ens » (cfr. Ox. II, d. 2, q. 1, n. 11).
[23] Recensendo, per così dire, i diversi tipi d’unità, lo Scoto scrive: c’è un’unità minima, che è quella dell’aggregato; un’unità accidentale; un’unità d’or, dine; un’unità essenziale, quella che nasce dall’incontro dell’atto con la potenza; e c’è, infine, un’unità somma, quella di semplicità propria dell’Essere assoluto in cui l’unità è identità. L’unità delle quattro cause, come quella dell’universo, è un’unità d’ordine nel senso che non si fonda sulla semplice giustapposizione delle cose, come quella dell’aggregato, e neppure si risolve nell’unità di un soggetto, come gli altri tipi d’unità, ma è l’unità d’una molteplicità in cui ogni causa, come ogni essere, pur conservando la propria irriducibile identità, è inscindibilmente legata alle altre nella misura in cui concorre, con esse, alla produzione d’un unico effetto (cfr. Ord. I, d. 2, p. 2, q. 1-4, n. 403).
[24] Cfr. P. SCAPIN, La causalità... in AA. VV., Contributi scotistici, o. c., p. 140 ss.
[25] Cfr. S. AGOSTINO, Confessioni XII, 4; PL. 32, 827: « Cur ergo non accipiam infinitatem materiae, quam sine specie feceras? ». Il riferimento concerne probabilmente E. di Gand e, più genericamente, quello che Bérubé ha chiamato « avicennismo agostineggiante ». Cfr. C. BÉRUBÉ, J Duns Scot: critique de l’« Avicennisme augustinisant », in AA. VV., De doctrina..., o. c., p. 221 ss.
[26] Cfr. ARISTOTELE, Met. VII, 10, 1035a; ed. Carlini, p. 249.
[27] Cfr. ARISTOTELE, Met. IX, 8-10, 1049b-1051-b; ed. Carlini, pp. 309-21.
[28] Cfr. AVICENNA, Met. VI, 6; ed. Venetiis, f. 90a.
[29] La quarta divisione rappresenta, di fatto, la seconda suddivisione dell’ordine di dipendenza ed è costituita dai termini effetto-causa, secondo le quattro relazioni fondate, rispettivamente, dal rapporto ‘finito’-fine, ‘effetto’-efficiente, ‘materiato’-materia, ‘formato’-forma.
[30] La terza divisione è costituita dal primo tipo di condizionamento (cfr. Introduzione, p. 44) che sorge quando una stessa causa produce due effetti di cui uno è essenzialmente anteriore rispetto all’altro, divenendo condizione essenziale di questo: es. padre —> primogenito —> secondogenito.
[31] La seconda divisione rappresenta il secondo tipo di condizionamento che si verifica nel caso in cui l’anteriore, che funge da condizione, è l’effetto prossimo d’una causa che è, a sua volta, effetto rispetto alla causa comune e condizione rispetto all’effetto immediato di essa: es. padre —> primogenito —> secondogenito-padre —> nipote (cfr. Introduzione, p. 44).
[32] L’esempio svela chiaramente l’indole metafisica della riflessione scotista: secondo il flusso metafisico, gli accidenti derivano dalla sostanza che ne è la loro causa secondo un ordine ben preciso. Così, la qualità deriva dalla sostanza dopo la quantità, ma non per questo si può dire che la quantità sia causa della qualità, In realtà, essa ne è solo una condizione essenziale (cfr, c. 1, § 9, n. 17).
[33] La ragione addotta dal testo latino appare dei tutto incongruente. Il Kluxen suggerisce di agganciare la frase « secunda est de sufficientia divisionis » alla successiva conclusione e attribuisce il vuoto alla distrazione o imperizia del trascrittore del Trattato (cfr. W. KLUXEN, Welterfahrung... in AA.VV., Deus et Homo..., o. C., p. 48, n. 6).
[34] La dimostrazione, per assurdo, si riassume nel costatare che un effetto dipende essenzialmente dalla sua causa totale (C). Per causa totale, però, bisogna intendere l’insieme delle cause (finale, efficiente, materiale, formale) e l’insieme delle condizioni essenziali dell’effetto. Se, oltre che dalla causa totale così intesa (C), un effetto (B) dipendesse anche da un altro fattore (A), dal momento che questo non fa parte della causa totale (C), l’effetto (B) non esisterebbe senza di esso (A). Ma, in tal caso, la causa totale (C) non sarebbe più causa totale, il che è contrario all’ipotesi iniziale che fosse, appunto, causa totale. (Sulla causa totale cfr. Ord. I, d. 2, p. 1, q. 3, n. 172; ibidem, n. 113).
[35] La prima divisione è rappresentata dal rapporto ‘ecceduto-eminente’ o dalla relazione ‘più perfetto-meno perfetto’.
[36] In altre parole, non sempre una cosa più perfetta è causa di una cosa meno perfetta; anzi, può darsi che non ne sia neppure condizione essenziale. Lo Scoto suggerisce l’esempio di due contrari: l’essere organico è più perfetto dell’essere inorganico, ma non perciò quello è causa di questo.
[37] Scrive Aristotele: « Le parti che si possono considerare come materia, e in cui l’oggetto materialmente si risolve (per es., la statua d’argilla si risolve in argilla), sono tutte posteriori: quelle invece che riguardano la forma e la sostanza considerata nel suo concetto sono, o tutte o alcune, anteriori » (cfr. Met. VII, 10, 1035b; ed. Carlini, p. 251).
[38] Cfr. § 5, nota 12, e: ARISTOTELE, Met. X, 1, 1052a (ed. Carlini, p. 320); Met. X, 4, 1055a (ed. Carlini, p. 334); Met. IX, 8-10, 1049b-1051a (ed. Carlini, pp. 309-21).
[39] In maniera esplicita, il principio è enunciato nella Fisica là dove Aristotele rimprovera ad Anassagora d’aver peccato per eccesso nel suo sforzo di conciliare la tesi eleatica dell’essere uno e immobile con la tesi ionica (eraclitea ed empedoclea) della natura molteplice e diveniente. Egli, infatti, affermò un numero indefinito di particelle simili (che Aristotele battezzò col nome di omeomerie). « Ora, osserva Aristotele, è meglio porre principi poco numerosi e di numero limitato, come fa Empedocle, anziché molto numerosi e di numero illimitato come fa Anassagora » (cfr. Phys. I, 4, 188, 17a-8). Nello stesso contesto (cfr. Phys. I, 6, 189a 15-6), lo Stagirita scrive che i principi costitutivi delle cose non possono essere né uno — perché il contrario è già diverso — né infiniti — perché, in tal caso, l’essere non sarebbe intelligibile, essendo indeterminato —: « La spiegazione è possibile a partire da un numero finito ed è migliore così, come fece Empedocle, piuttosto che essa supponga un numero infinito di parti». Cfr. pure Phys. VIII, 259a 8-9, dove il principio serve allo Stagirita per affermare l’unità del Primo Movente.
[40] Si tratta degli ordini essenziali di eminenza e di dipendenza.
[41] Sono: l’ordine di eminenza (1) costituito dal rapporto ‘eminente-ecceduto’; l’ordine di dipendenza, suddiviso nell’ordine di condizionamento (2) e di causazione che, a sua volta, si ramifica nei rapporti: ‘fine-finito’ (3), ‘efficiente-effetto’ (4), ‘materia-materiato’ (5) e ‘forma-formato’ (6).
[42] Questa conclusione stabilisce l’identità del posteriore nell’ordine di dipendenza e del posteriore nell’ordine di eminenza, ponendo le premesse per il passaggio dal posteriore all’anteriore di ambedue gli ordini.
[43] Cfr. ARISTOTELE, Phys. II, 2, 194a-b.
[44] Il fine, che contiene virtualmente il ‘finito’, è eminente rispetto ad esso. Ma il concetto di eminenza possiede un significato particolare che va rilevato. L’anteriorità nell’eminenza è definita dallo Scoto come ciò che è più perfetto o più nobile secondo l’essenza (cfr. § 5). Il termine perfetto è preso come « ciò che è completo e pienamente attuato».. Così, l’adulto è più perfetto del bimbo, giacché « ciò che è attuato è più perfetto nell’essenza (o nella sostanza e nella specie) di ciò che è potenziale e, quindi, tende verso l’atto ». Questa nozione d’eminenza non sembra concepita secondo l’« albero di Porfirio » che classifica la nobiltà delle essenze. Secondo tale « albero » l’uomo è più perfetto d’un animale e l’animale più perfetto della pianta e questa più della pietra. No, l’eminenza è concepita come l’ordine in cui l’anteriore è ciò verso il quale è orientato il posteriore, giacché rappresenta il proprio completamento.
[45] Lo Scoto è avverso ad ogni concezione occasionalista: per lui, anche le cause seconde possiedono un’efficienza vera e propria, anche se nell’esercizio della loro efficienza sono subordinate alla Causa Prima, così come da essa dipendono nel loro essere.
[2] Lo Scoto distingue diversi gradi di unità (cfr. Ord. I, d. 2, q. 1-2, n. 403) da cui risultano diverse forme di unità. Tra queste, le più portanti sono l’unità del singolare o individuale e l’unità della natura o essenza: « Aliqua est unitas in re realis absque omni operatione intellectus, minor unitate numerali, sive unitate propria singularis, quae unitas est naturae secundum se; et secundum istam unitatem propriam naturae, ut natura est, natura est indifferens ad unitatem singularem; non ergo de se est sic una unitate illa, scilicet unitate singularitatis » (cfr. Ox. II, d. 3, q. 1, n. 7). Fondamento dell’unità essenziale è l’indole stessa dell’essenza « quia secundum Aristotelem (cfr. Met. VIII, c. 3, 1043b) formae se habent sicuri numeri » (cfr. Ord. I, d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 64). Ora, prima di dimostrare che c’è un Dio, il Dottor Sottile dimostra che c’è una divinità.
[3] Due termini correlativi si implicano a vicenda: « nam immediate ex esse unius relativi sequitur esse sui correlativi » (cfr. Ord. 1, d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 39). Così, ‘padre’ e ‘figlio’ si richiamano vicendevolmente nel senso che l’essenza del padre rinvia a quella del figlio e quella del figlio rinvia a quella del padre. Al livello dell’esistenza, però, le cose cambiano, giacché l’esistenza del correlativo posteriore — nell’esempio, il figlio — implica necessariamente quella del correlativo anteriore — nell’esempio, il padre —, ma non viceversa. Ora, arguisce Io Scoto, se c’è qualcosa che può essere prodotto, c’è anche qualcosa che può produrlo, perché questo è incomprensibile senza quello, come il figlio è incomprensibile senza il padre. Che, poi, qualcosa possa essere prodotto è incontestabile, data la contingenza e la mutabilità degli esseri d’esperienza.
[4] Questo è un punto cruciale della riflessione scotista intorno al problema di Dio. Lo Scoto riconosce che la dimostrazione dell’esistenza di Dio, fondata su premesse contingenti (per es., « qualcosa è prodotto », è valida: « Ex tali contingente potest ostendi aliquod necessarium, quia ex contingente sequitur necessarium, non e contra » (cfr. I. DUNS SCOTI, Lectura I, d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 56; ed. Vaticana XVI, 131). Ma preferisce fondare la sua dimostrazione su premesse necessarie (per es. « qualcosa è producibile ») e, di conseguenza, considera non l’attuale esserci degli esseri contingenti, ma il possibile esserci d’essi.
[5] Già Aristotele aveva scritto che « una sola affermazione ha una sola negazione » e viceversa (cfr. ARISTOTELE, Dell’Espressione, 10, 20b 4; ed. Colli, p. 73) e lo Scoto dice, a sua volta, che la negazione d’una negazione equivale ad una affermazione.
[6] Cfr. ARIST., De gener. et corrupt. II, c. 10, 336a-337a; c. 11, 337a-338b. Lo Scoto parla di Filosofi e di Filosofanti. I due termini, per quanto simili, non indicano la stessa categoria di persone. I Filosofi sono coloro che o non conobbero la rivelazione cristiana, come Aristotele, o coltivano la filosofia senza tener conto della rivelazione, come certi averroisti. Ad essi si oppongono i Teologi, cioè coloro che ragionano a partire dalle verità di fede. I Filosofanti, invece, sono meno facilmente identificabili. Di loro si parla dopo il 1250 e, pìù che una nuova categoria di persone, il termine sembra essere un epiteto che qualifica certi teologi, troppo inclini a condiscendere verso i filosofi (cfr. E. GILSON, Les « Philosophantes » in Archives d’Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge 19 (1952), 139-40).
[7] Avicenna, che è un Filosofo e non un Filosofante, non parla d’una serie infinita di cause essenzialmente ordinate, ma d’un’infinità di individui nell’ambito della specie. Infatti, scrive: « Ad hoc autem ut hoc unum permaneat in esse, (= natura vel species) necesse est ut sint individua post individua sine fine; igitur infinitas individuorum numero erit accidentalis secundum intentionem necessarii in parte divisionis » (cfr. AVICENNA, Met. VI, 5, 94b-a). E, più esplicitamente, nel capitolo secondo: « Causas enim non essentiales vel non propinquas non nego procedere in infinitum, immo facio debere hoc » (cfr. ivi, 92ra). Lo stesso Averroé diceva: « Hominem autem generari ab Nomine in infinitum est verum per. accidens, non per se » (cfr. AVERROES, Phys., V, com. 13). Particolarmente importante è quanto dice Aristotele a questo proposito. Secondo Aristotele, il cielo è ingenerabile e incorruttibile (cfr. ARISTOTELE, De coelo I, 3, 270a 12b 25; II, 1, 283b 26-284a 18). Esso non ha avuto mai inizio o non avrà mai fine. Ciò vale anche per il mondo preso come un tutto (cfr. ARISTOTELE, Phys. VIII, 1, 250b 11; VIII, 2, 253a 21; VIII, 6, 259b 32-260a 10; De coelo I, 10, 279b 4; Id. I, 10, 283b 22). A proposito dell’attività del cielo, Aristotele scrive: « Per questo sono sempre in attività il sole e gli astri, il cielo e tutto quanto, e non c’è da temere che mai si fermino, come temono i Fisici: ché il loro operare non li stanca » (cfr. Met. IX, 8, 105b; ed. Carlini, p. 314). In quest’universo, secondo Aristotele, Avicenna e Averroé, il movimento e la serie dei generanti non hanno né inizio né fine, ma sono eterni. Perciò, la serie è infinita. Si tratta, però, non di una serie di cause essenzialmente ordinate, cosa esclusa dagli stessi Filosofi (cfr. ARISTOTELE, Phys. VII, 1, 241b 24-243a 2; VIII, 5 256a 4-258b 9; Met. II, 2, 994a 1-19; AVICENNA, Met. VIII, 1, 97rb-va), ma d’una serie di cause accidentalmente ordinate (cfr. ARISTOTELE, De gen. et corrupt. II, comm. 56-70; Phys. V, comm. 13; VIII, comm. 15-47; AVICENNA, Met. VI, 5, 94rb-va).
[8] Per quanto riguarda le cause per se e le cause per accidens cfr. ARIST., Physica II, c. 3, 195a-b; ib., c. 5, 196b; Metaph. V, c. 2, 1013b-1014a.
[9] Esempio di cause essenzialmente ordinate è la generazione. Così, il generante è essenzialmente subordinato ai corpi celesti e alle Intelligenze che li muovono. Sicché, l’uomo è « generato dall’uomo stesso e dal sole », come da cause essenzialmente ordinate (cfr. ARISTOTELE, Phys. II, 2, 194b 13). Esempio di cause accidentalmente ordinate è ancora la generazione, ma sotto un altro punto di vista. Così, un figlio che diventa padre dipende, sì, dal proprio padre, ma solo accidentalmente nel senso che dal proprio padre ha ricevuto l’esistenza cui è legata la capacità di procreare. Il figlio, però, può generare tanto se il padre è morto quanto se il padre vive ancora, perché la sua funzione procreatrice non dipende più necessariamente dal padre.
[10] Cfr. AVICENNA, Metaph. compendium I, p. 1, tr. 2, c. 1 (ed. Carame, 92-93). Per comprendere tale impossibilità, oltre le tre condizioni indicate nel $ 48, bisogna tener presenti le proprietà su cui si fondano tali condizioni e le proprietà che da tali condizioni risultano. Le prime si riassumono in quattro: 1) irriflessività della causalità: nihil causat seipsum, 2) asimmetria della causalità: nell’ordine essenziale il circolo è impossibile, 3) transitività della causalità: quidquid est causa causae, est causa causati, 4) connessione dell’efficacia causale: omnes causae sunt ita ordinatae, quod semper una causa est causa alterius. Le proprietà che derivano dalla coordinazione essenziale delle cause, invece, si riassumono nelle tre seguenti: 1) la causa prossima è una causa particolare, mentre le cause più elevate sono comuni e sono gerarchizzate secondo il grado della loro efficacia: quanto enim aliqua causa est altior, tanto est communior et efficacior, 2) la causa prossima è univoca: le pre-ordinate non sono univoche. Così, i genitori sono cause univoche dei figlio, mentre il sole è causa equivoca e non univoca, 3) le cause inferiori sono cause seconde e secondarie, quelle superiori sono principali e primarie.
[11] Cfr. ARIST., Metaph. II, c. 2, 994a. Dell’atteggiamento dei Filosofi su questo punto ci informa San Tommaso in diversi suoi scritti (cfr. Summa Theologica, q. 7, a. 4 c; De veritate, q. 2, a. 10 c; Quodl., 9, a. 1, c. 1). Il Dottore Angelico dice che Avicenna (cfr. Metaph. VI, 2, 91vb) e Algazel (cfr. Philosophiae I, 1, c. 11) hanno dichiarato impossibile una serie infinita per sé, non però una serie infinita per accidens. Averroé, invece, ammise soltanto l’infinità potenziale di cui parla Aristotele nel V . libro della Fisica ed espose questa sua opinione commentando il II libro della Metafisica aristotelica. Sicché l’affermazione dello Scoto è sostanzialmente vera. Ma molte sfumature s’impongono a chi pronuncia oggi un giudizio storico in merito. Si veda su ciò: R. MONDOLFO, L’infinito nel pensiero dell’antichità classica, Firenze, 1956. Dal punto di vista teoretico, la questione della serie infinita si identifica con il problema del numero infinito. Ora, per risolvere tale problema, bisogna tener conto dei due termini che lo costituiscono: il numero e l’infinità. Il numero dovrebbe essere concepito come ripetizione dell’unità omogenea. L’infinità, poi, può essere intesa come potenziale nel senso d’indefinito e, in tal caso, si ha da che fare con la finitezza attuale e con l’indefinitezza possibile o con qualcosa che è finito nell’esistenza concreta e infinito solo nella sua possibilità astratta. Ma l’infinità può essere concepita anche come attuale e, quando riguarda l’essere, essa implica che l’infinito esclude, positivamente, ogni limite nella perfezione e include, superlativamente, ogni perfezione. Ciò posto, è possibile un numero infinito? 1) Un numero attualmente infinito di esseri finiti è un assurdo, perché il concetto di numero include la nozione di limite, connessa con la molteplicità, e il concetto d’infinito attuale esclude assolutamente ogni nozione di limite. 2) Un numero potenzialmente infinito di esseri finiti è, invece, possibile perché il carattere potenziale del numero esclude i limiti attuali, esclusi pure dalla nozione d’infinito. 3) Un numero attualmente o potenzialmente infinito d’esseri infiniti, infine, appare assurdo perché già due infiniti sono contraddittori in quanto, limitandosi reciprocamente, non potrebbero essere infiniti né l’uno né l’altro (Cfr. S. VERRIEST, L’infini mathématique, Louvain, 1926).
[12] Cfr. ARISTOTELE, Met. V, 11, 1018b 8-11 (ed. Carlini, p. 172-3).
[13] Cfr. § 25. La causa, dicevano gli scolastici, in quanto è causa non muta, cioè né acquista né perde nulla in virtù dell’esercizio della sua efficacia e ciò appunto perché essa comunica una perfezione che possiede già e di cui non si impoverisce, comunicandola. Ad esempio, il maestro non impara il teorema di Pitagora e, tanto meno, lo disimpara, insegnandolo ai suoi alunni. Tutto questo implica la verità per la quale l’efficienza, di per sé, dice solo perfezione.
[14] La quinta prova addotta per escludere la possibilità d’una serie infinita di cause essenzialmente ordinate non sembra allo Scoto apodittica, ma soltanto probabile (cfr. I. DUNS SCOTI, Rep. Par. I, d. 2, q. 1, n. 5-6). La sua importanza però, si rivelerà nel momento di operare il passaggio dalla possibilità all’esistenza della Causa Efficiente prima (cfr. § 54).
[15] In altre parole: nulla di quanto incomincia e passa, può avere in se stesso il fondamento della propria esistenza. Tale fondamento non può trovarsi che in un essere che non cominci né passi, cioè di un essere eterno.
[16] Cfr. ARIST., Phys. VII, c. 1, 241b-243a; VIII, c. 5, 256a-256b; Metaph. II, c. 2, 994a; AVICENNA, Metaph. VIII, c. 1, 97rb-va).
[17] Cfr. § 20, nota 10.
[18] Cfr. § 23, note 16-8.
[19] Cfr. § 24.
[20] Cfr. § 25.
[21] Cfr. § 50, nota 13.
[22] Cfr. § 45, nota 4.
[23] La dimostrazione scotista raggiunge qui un punto culminante. Le interpretazioni della sua portata sono varie e dipendono, per lo più, dalla idea che ci si fa dell’essere scotista. Cfr. E. GILSON, Jean Duns Scot..., o. c., pp. 177-215; P. MIGLIORE, Apriorismo nella dimostrazione scotista dell’esistenza di Dio, Roma, 1953, pp. 14-18; E. BETTONI, L’ascesa a Dio..., o. c., pp. 59-79; 0. TODISCO, La nozione metafisica..., o. c., pp. 55-60; R. PRENTICE, The basic..., o. c., pp. 178-182. Particolarmente illuminante, sotto il profilo storico-critico, è il saggio già citato di C. BÉRUBÉ, Pour une histoire des preuves de l’existence de Dieu chez Duns Scot in AA. VV., Deus et Homo..., o. c., p. 17-46. Una delle conclusioni più significative del Bérubé sottolinea che « Scot semble avoir admis, dans ses premières oeuvres, la possibilité de démonstrations a priori de l’existence de Dieu comme cause efficiente première, comme être souverainement parfait et infini, puisqu’on rencontre de telles preuves dans les Quaestiones in Metaphysicam, la Lectura I et l’Ordinatio. Signe de maturation normale — car la jeunesse est naturellement aprioriste et l’âge mûr en appelle plus à l’expérience, — et qui se constate dans l’élimination des justifications a priori que comporte la preuve par la fin de la volonté dans la Lectura et dans la discrétion, jointe d’ailleurs à la fermeté, dans les preuves parallèles de l’Ordinatio et du De Primo Principio et de la Reportatio Parisiensis » (cfr. ivi, p. 45).
[24] È, qui, appena adombrata la quarta via di S. Tommaso, di ispirazione platonica, fondata sulla dialettica dei gradi di perfezione.
[25] La contraddizione si esprime per sic et non: essere, non-essere; vivo, non vivo. Essa è l’anima del principio di non contraddizione che costituisce il fondamento di tutto il nostro pensare proprio perché esprime il fondamento stesso dell’essere (cfr. ARIST., Met. IV, 9, 1005b). Proprio per questo « uno dei termini della contraddizione è sempre vero ».
[26] L’espressione « necessità intrinseca » traduce quella latina « necesse esse ex se » che deriva da Avicenna (cfr. Met. I, 7, 73ra-va). ‘Necessario’ è ciò che non può essere diverso da come è o ciò il cui opposto è impossibile. ‘Intrinsecamente necessario’ nell’essere è ciò che esclude in maniera assoluta la possibilità stessa del non-essere. Quindi, la necessità intrinseca si oppone alla contingenza, che include la intrinseca possibilità di non-essere. In questo senso, la necessità intrinseca conviene solo a Dio.
[27] Questa formalità è ciò che costituisce l’haecceitas (cfr. § 23, nota 18).
[28] Secondo Scoto, c’è un rapporto essenziale tra l’essere e il conoscere: ad ogni aspetto della realtà formalmente distinto, corrisponde un concetto irriducibile a tutti gli altri. A suo giudizio, c’è un parallelismo noetico-noematico, la cui legge fondamentale si potrebbe così enunciare: ogni espressione è legata ad una conoscenza ed ogni conoscenza è ordinata ad un determinato aspetto della realtà conoscibile (cfr. A. B. WOLTER, The Transcendentals, o. c., p. 110).
[29] Cfr. ARISTOTELE, Phys. I, 4, 188, 17-8; cfr. pure § 36, nota 39.
[30] è nuovamente ribadito il carattere a posteriori della dimostrazione, nella sua fase iniziale (cfr. § 54, nota 21).
[31] Cfr. § 69.
[32] Cfr. § 44.
[33] Cfr. § 50. La connessione delle cause e il primato della causa finale, rispetto a tutte le altre, fanno sì che quanto vale per la causa efficiente valga anche per la causa finale.
[34] Cfr. § 39. è, appunto, il primato della causa finale che conferisce all’ordine essenziale un’evidenza maggiore in rapporto alla necessità di una causa finale ultima.
[35] Cfr. § 50. In pratica, l’affermazione d’una natura finale assolutamente ultima poggia su tutti i motivi che giustificano l’affermazione d’una natura efficiente assolutamente prima (cfr. § 50).
[36] Cfr. § 17.
[37] Cfr. § 59. L’ipotesi d’una serie circolare di cause finali cade come quella d’una serie di cause efficienti. Parimenti insostenibile si rivela la serie infinita di tipo lineare perché implica l’assurdità d’un numero attualmente infinito.
[38] Cfr. § 44. Il fine ultimo è possibile, perché non contraddittorio e perché assolutamente esigito dall’ordine essenziale delle cause. Ma la sua possibilità non può dipendere da nessun altro essere, altrimenti non sarebbe più assolutamente ultimo. Dunque, la sua esistenza in atto è l’unico fondamento e, quindi, l’unica spiegazione della sua possibilità logica e della sua possibilità reale.
[39] Cfr. § 55.
[40] Cfr. § 61.
[41] Cfr. § 23. La dimostrazione della possibilità d’una natura eminente è appena adombrata. Essa poggia, comunque, sulla realtà del ‘finito’.
[42] Nella sua concisione, il testo parallelo dell’Ordinatio è più chiaro: « Hoc patet, quia inter essentias ordo essentialis, quia secundum Aristotelem formae sunt sicut numeri, VIII Metaphysicae (c. 3, 1043b); in hoc ordine statur, quod probatur illis quinque rationibus quae de statu in effectivis sunt superius » (cfr. Ord. I, d. 2, p. 2, q. 1-2, n. 64).
[43] Cfr. ARISTOTELE, Met. VIII, 3, 1044: « La sostanza è proprio come il numero. E come il numero, se vi sottrai o aggiungi qualcuno degli elementi suoi — sia pure il più piccolo —, non è più lo stesso numero, ma un altro; così, neppure la definizione o la pura essenza è più la stessa, se vi togli o aggiungi qualcosa... E come il numero non ammette un più e un meno nell’essere suo, così neppure la sostanza in quanto forma; ma semmai, in quanto è unita alla materia » (ed. Carlini, p. 285).
[44] Cfr. § 50.
[45] Cfr. § 39. Se fosse ‘finita’, sarebbe superata dal fine nella bontà e, di conseguenza, nella perfezione. In tal caso, non sarebbe più eminente in sommo grado.
[46] Cfr. § 17. Per poter essere effettuabile, dovrebbe poter essere ‘finita’, perché la causa efficiente opera sempre per un fine. Non potendo essere ‘finita’, non potrà neppure essere effettibile.
[47] Cfr. § 53.
[48] Cfr. § 51. Il primo della serie non può essere un elemento della serie stessa. Infatti, l’ipotesi d’una serie di cause accidentalmente ordinate esige come fondamento della sua perpetuità — o del carattere indefinito della successione cui dà luogo — qualcosa di permanente, cioè un anteriore essenziale. Questo, però, deve essere distinto e trascendente rispetto ai membri della serie, presi sia distributivamente sia collettivamente, altrimenti sarebbe, nello stesso tempo, causa di tutti i membri della serie, in quanto primo, ed effetto di uno di essi, in quanto elemento della serie stessa. In altre parole, sarebbe causa della propria esistenza, il che è evidentemente assurdo. Quindi, anche la prima natura eminente dev’essere incausata.
[49] Cfr. § 54. Se è possibile, la suprema natura eminente esiste. Ma è possibile. Dunque, esiste. Tale è il nucleo del ragionamento già incontrato per la causa efficiente e finale.
[50] Cfr. § 55.
[51] Cfr. § 57.
[52] Cfr. § 56.
[53] Cfr. § 53.
[54] Cfr. § 56.
[55] Cfr. § 63.
[56] Cfr. § 56.
[57] Cfr. § 67.
[58] Cfr. § 56.
[59] Cfr. § 64.
[60] Cfr. § 68.
[61] La necessità di trovare un fondamento ontologico alla molteplicità degli esseri ha condotto lo Scoto « per tre vie diverse » all’unità originaria. Tutto questo, però, potrebbe far pensare a tre esseri primi, tra loro distinti, cui farebbero capo, per vie diverse, tutti gli altri. Perciò, lo Scoto, prima di procedere all’investigazione degli altri attributi di Dio, si preoccupa di provare la rigorosa unità e unicità de « Il Primo Principi degli esseri ». Per un’eccellente analisi comparativa dell’itinerario da lui seguito nelle opere principali cfr. R. PRENTICE, The evolution of Scotus’ Doctrine on the unity and unicity of the Supreme Nature in AA. VV., De doctrina..., o. c., II, pp. 376-408. « The three ultimate stages of his evolution, found in the De Primo Principio — conclude il Prentice — are, therefore, these: necessity is attributed to all three primacies, secondly necessity solves both questions of the unity and unicity of the supreme nature and, thirdly, the absolute and universal priority of the nature possessing the primacies is shown » (ivi, pp. 407-8).
[62] Cfr. § precedente.
[63] Il rinvio, quanto mai generico, intende, probabilmente, sottolineare il valore preminente che, nel pensiero d’Aristotele, riveste il finalismo. Alcuni tra punti della Metafisica, particolarmente legati al rinvio scotista, sono i seguenti: Met. I, 3, 983, 31-2 (ed. Carlini, p. 13): « Il perché (causa finale) si riduce da alcuno al concetto e, essendo il primo perché, è la causa principale... è lo scopo e il bene, ché questo è il fine di ogni generazione e movimento »; Met. I, 7, 988b 9-12; Met. II, 2, 996a 23-6; Met. XII, 10, 1075a 37.
[64] Anche Aristotele dimostra l’unicità di Dio a partire dall’unicità dell’universo. Scrive lo Stagirita: « Che poi ci sia un unico mondo, è evidente. Se, infatti, i mondi fossero molti, come gli uomini, ci sarebbe per ognuno di essi un principio che sarebbe lo stesso degli altri quanto alla forma, ma numericamente molteplice. Ora, tutto ciò che è numericamente molteplice, ha materia. Ma quella pura essenza che è la prima, non ha materia, poiché è atto perfetto. Uno, dunque e per il concetto e per il numero, è il primo Motore ch’è immobile » (cfr. Met. XII, 8, 1074a; ed. Carlini, p. 419). Manca, tuttavia, ad Aristotele il concetto dell’individualità come personalità spirituale. Lo Scoto, ci sembra, segue lo Stagirita fin dove può, staccandosene decisamente in rapporto all’intelligenza e volontà di Dio.
[65] Le cinque ragioni addotte sono definite « probabili ». Ciò significa che non hanno valore apodittico o non racchiudono un’evidenza tale da escludere ogni dubbio riguardo al valore assoluto della conclusione. Ci si potrebbe chiedere, allora, perché mai le adduce. E il motivo a noi sembra si debba ricercare, da una parte, nella volontà di non presentare come probanti delle ragioni che, rigorosamente parlando, non sono tali e, dall’altra, nel desiderio di richiamare l’attenzione su ragioni non prive di forza persuasiva, per quanto non dotate di evidenza risolutiva. In fondo, la convergenza di ragioni probabili può accrescere la forza persuasiva delle ragioni apodittiche, aumentandone non l’intrinseca evidenza, ma la soggettiva capacità di convincere.
[66] L’identificazione della perfezione con il bene è compiuta da Aristotele sia nella linea positiva come in quella negativa: « si dice perfetto secondo la virtù e l’eccellenza quello che non ha chi lo superi nel suo genere: per esempio, medico perfetto e flautista perfetto è quando non manchino di nulla rispetto alla speciale virtù loro propria. E così trasferiamo la parola anche a cose cattive, e parliamo d’un calunniatore perfetto e d’un buon ladro... Infatti, ogni sostanza o cosa è perfetta quando, secondo la speciale virtù che le è propria, non manchi di nessuna sia pure piccola parte della sua grandezza naturale» (cfr. Met. V, 16, 1021b; ed. Carlini, p. 185). Per questa identificazione da parte dello Scoto cfr. Rep. II, d. 34, n. 3.
[67] Cfr. ARISTOTELE, Phys. III, 6, 207a 7-14: « La cosa che non manca di nulla è completa e intera, giacché noi definiamo l’intero (o il tutto d’una cosa) come ciò da cui nulla è assente. Per esempio, è un tutto l’uomo come pure lo scrigno. E ciò che avviene per le cose particolari, avviene anche per il tutto in senso assoluto, cioè per il tutto fuori del quale non c’è nulla. Ma ciò cui manca qualcosa non è mai un tutto, per quanto sia piccola la parte che gli manca. Perciò, tutto e perfetto sono assolutamente identici ».
[68] Cfr. ARISTOTELE, Ethica Nic. I, 1, 1094a 3: « Ogni arte e ogni ricerca come ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche bene; perciò a ragione definirono (forse Eudosso) il bene: ciò a cui ogni cosa tende » (cfr. Etica Nic., a cura di A. Plebe, Bari, 1957, p. 3).
[69] Cfr. AVICENNA, Met. VI, c. 5, 94ra.
[70] Dante, contemporaneo dello Scoto, tradurrà liricamente la verità qui razionalmente espressa, definendo la creazione nel modo seguente:
Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’essere non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir ‘subsisto’
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
s’aperse in nuovi amor l’eterno Amore.
(Paradiso XXIX, 13-8).
[71] Cfr. AVICENNA, Met. VI, c. 5, 92a.
[72] Cfr. § 69.
[73] Secondo Aristotele, le Intelligenze sarebbero posteriori rispetto al Primo Movente in eminenza e in finalità, ma non in efficienza perché esse non sono effettuate (cfr. $ 21, nota 11). Ma la risposta dello Scoto (5 77) chiarisce l’insostenibilità della posizione aristotelica. Il Prentice così esplicita il pensiero del Dottor Sottile: « The first intelligences (and perhaps prime matter) have no efficient cause. Hence they are not posterior in efficiency to the first mover. But they are posterior to it in eminence and finality, since in it they find their end and are exceeded by it in perfection. But this is now said to be impossible. For if they are not posterior in efficiency, then they are uncausable, and hence necessary. Therefore they most belong to the unique necessery nature. Accordingly, they would have to possess also the other two primacies. But Aristotle denies these last two primacies to them. Hence Aristotle’s position is unintellegible: they cannot by posterior in eminence and finality and at the same time not posterior in efficiency » (cfr. R. PRENTICE, The unity..., in AA. VV., De doctrina..., o. c., II, p. 402).
[74] Cfr. §§ 57-9.
[75] Cfr. § 53.
[76] Cfr. § 63.
[77] Cfr. § 17. In ognuno dei tre casi (prima natura efficiente, fine ultimo e essere supremo) è sempre l’incausabilità che dimostra il carattere intrinsecamente necessario de « Il Primo Principio degli esseri ».
[78] Cfr. § 57.
[79] L’essere vano sarebbe l’essere privo di valore o vuoto di essere, perché, in quanto vuoto, non conterrebbe alcuna entità. Perciò stesso sarebbe non-essere. Ecco perché tutto ciò che è, nella misura in cui è, è pieno di valore, cioè non è vano.
[80] Cfr. § 15.
[81] Cfr. ivi.
[82] Cfr. §§ 17-8.
[83] Cfr. § 19.
[84] Cfr. § 37.
[85] Cfr. § 39. Come già abbiamo sottolineato nel contesto di questo paragrafo, i termini posteriori d’ogni tipo d’ordine essenziale s’identificano tra loro: ciò che dipende da una causa nel suo esistere o l’effetto, in definitiva, è ecceduto o è posteriore in virtù della sua essenza rispetto a un anteriore che è, essenzialmente, più perfetto di lui.
[86] Cfr. § 68.
[87] Cfr. § 58.
[88] Cfr. § 73.
[89] Raggiunto il traguardo della dimostrazione dell’esistenza di Dio, il filosofo cede il posto al credente e si espande nella preghiera di lode che riprende, quasi alla lettera, dalla Bibbia: « Quanto grandi sono le tue opere, Jahvé, le hai fatte tutte con sapienza! » (Salmo 104, 24).
[2] Cfr. § 53.
[3] Cfr. § 57.
[4] L’essere non è un genere né è in un genere (cfr. ARIST., Met. III,, c. 3, 998). Esso è trascendente nel senso che supera il genere e la differenza specifica (cfr. ARIST., Topici VI, c. 6, 144a-144b). Ma tutto ciò che vale per l’essere vale anche per Dio, giacché Dio è l’essere per eccellenza. Quindi, tutti i suoi attributi, come quello dell’essere sono anteriori alla discesa nei generi o sono trascendenti. E la predicazione, nei riguardi di Dio, è trascendente per definizione: « Quidquid dicitur de Deo est formaliter transcendens » (cfr. I. DUNS SCOTI, Rep. Par. I, d. 8, q. 5, n. 13).
[5] La difficoltà nasce dalla molteplicità degli attributi che riferiamo a Dio. Noi diciamo di Lui che è buono, che è giusto, che è santo, ecc. Per chiarire, poi, nella misura del possibile, i termini del mistero di Dio uno in tre persone, i teologi dicono che la natura divina è essenzialmente una e unica, mentre le persone sono tre. Queste non moltiplicano l’unica natura, perché sono costituite dalla relazione che le specifica. Che rappresentano tutte queste cose per Iddio? Se, per esempio, la bontà è diversa dalla giustizia e si dice che Dio è buono e giusto nello stesso tempo, non si introduce in lui una molteplicità incompatibile con la sua semplicità essenziale? In altre parole, che rapporto c’è tra i diversi attributi divini? Lo Scoto risponde che la soluzione è data dall’infinità. Nell’infinità rimangono le distinzioni, ma non sono reali, altrimenti l’infinità sarebbe distrutta; sono, invece, o formali o di ragione. Nei paragrafi che seguono lo Scoto chiarirà e approfondirà ulteriormente questa concezione degli attributi divini.
[6] Ciò che consente di comprendere come in Dio ci siano perfezioni formalmente distinte (per es., bontà, giustizia, potenza...) senza che scompaia la sua essenziale semplicità è precisamente l’infinità che gli è propria. Solo questa fa sì che la molteplicità delle perfezioni s’accordi con l’unicità dell’essenza. Nell’essere essenzialmente composto, com’è ogni ente finito o limitato, una delle componenti funge sempre da elemento determinabile o potenziale e l’altra da elemento determinante o attuale, di modo che una non può mai includere l’altra per identità, o identificarsi realmente con essa. Questo avviene, invece, quando una delle perfezioni sia realmente infinita e le altre sono infinite, sì, ma solo formalmente. In tal caso, la perfezione realmente infinita assorbe, per così dire, le perfezioni formalmente distinte, garantendo l’essenziale semplicità dell’essere infinito.
Per il rinvio cfr. §§ 116 ss.
[7] A questo punto lo Scoto ha dedicato notevole attenzione: cfr. soprattutto Ord. I, d. 2, p. 2, q. 1-4: utrum possibile sit cum unitate essentiae divinae esse pluralitatem personarum. In tale contesto dichiara: « unitas Dei probatur ex hoc quod divina infinitas non dividitur in plures essentias » (Ivi, n. 367).
[8] La nozione di perfezione pura è di Origine anselmiana. Nel cap. 15 del Monologio (cfr. ANSELMO D’AOSTA, Monologio e Proslogio, a cura di A. M. Moschetti, Padova, 1948, pp. 30-33), S. Anselmo stabilisce il criterio seguente per discernere gli attributi divini: della sOmma Natura si devono predicare gli attributi il cui contrario è inferiore ad essi e non si devono predicare, invece, gli attributi il cui contrario è ad essi superiore. Quindi, essendo Dio tutto ciò che è migliore del suo contrario, diremo che è vivente, sapiente, potente, vero, giusto, beato, eterno, appunto perché tutte queste determinazioni sono superiori al loro contrario. D’altra parte, poiché il non avere un certo predicato è cosa più perfetta che l’averlo, diremo, ad esempio, che Dio non è corpo, giacché è superiore al corpo ciò che non è corpo, cioè lo spirito.
Per comprendere la duplice difficoltà e la soluzione scotista, riportiamo, secondo una nostra traduzione, il contorto passo in cui S. Anselmo enuncia tale dottrina: « In verità, se uno osserva diligentemente le singole cose, vedrà che, tutto ciò che non è relativo, o è tale da essere migliore del suo contrario o è tale che il contrario, in un soggetto particolare, è migliore di esso. Per esso e per contrario intendo, qui, vero e non-vero, corpo e non-corpo, ed altri termini simili a questi. Effettivamente, qualcosa è assolutamente migliore del suo contrario: così sapiente è meglio di insipiente o essere sapiente è meglio che essere insipiente. Sebbene, infatti, un giusto insipiente sembri migliore di un ingiusto sapiente, tuttavia, l’insipiente, considerato in sé, non è migliore del sapiente, perché ogni insipiente, che possa essere sapiente, è da meno d’un sapiente, in quanto ogni insipiente sarebbe migliore se fosse sapiente. Allo stesso modo, una cosa vera è assolutamente migliore d’una cosa falsa; e un uomo giusto è migliore d’un ingiusto e un essere vivo è migliore d’un essere morto. Ma in un soggetto particolare può essere meglio non una cosa, ma il suo contrario. Per esempio, per l’uomo è meglio non essere oro anziché oro, anche se per caso, per qualcosa sia meglio essere Oro anziché non essere oro. Così per il piombo sarebbe meglio essere Oro. Ambedue i soggetti — l’uomo e il piombo — sono diversi dall’Oro, ma per un uomo è meglio essere uomo che oro, perché se fosse oro sarebbe di natura inferiore, mentre per il piombo sarebbe meglio essere oro, perché sarebbe di natura superiore. Dunque, considerando le cose in maniera distributiva, si costata che ogni determinazione o è migliore del suo contrario o il suo contrario è migliore in un soggetto particolare. Ora, come non si può pensare che l’essenza umana sia qualcosa di peggiore del suo contrario, cOsì è necessario che tutto ciò che è, sia migliore del suo contrario. (L’essere è sempre migliore del non essere). Ma la sOmma sostanza è la sola alla quale non corrisponde alcun contrario che sia migliore di essa. Essa è migliore di tutto. Perciò, non è corpo o qualcosa di discernibile per mezzo dei sensi corporei, giacché di tutto ciò che è corporeo è migliore quanto è, pur non essendo corpo, cioè lo spirito. Perciò non si deve dire che la somma Essenza possiede attributi propri di qualcosa che sarebbe superiore ad Essa, ma, al contrario, si deve dire, come insegna la ragione, che Essa possiede tutti gli attributi, rispetto ai quali è inferiore tutto ciò che è diverso da essi. Quindi, bisogna dire che Essa è vivente, sapiente... è tutto ciò che, in maniera assoluta, è meglio del loro contrario » (cfr. S. ANSELMO, Monologion, c. 15; PL. 158, 163). In breve, solo le perfezioni pure o i modi di essere che non racchiudono alcuna imperfezione nel loro contenuto intelligibile, sono migliori del loro contrario in senso assoluto; la vita è assolutamente migliore della morte. Tutte le altre perfezioni O gli altri modi di essere non dicono necessariamente qualcosa di meglio del loro contrario. Per verificare se dicono qualcosa di meglio del loro contrario, bisogna riferirsi al soggetto che le possiede.
[9] La predicazione denominativa si ha quando si attribuisce a un soggetto una perfezione che non appartiene alla sua essenza. Così, dire che un corpo è animato significa riconoscere che esso è dotato di anima. Ma l’animazione che si attribuisce al corpo non scaturisce dall’essenza del corpo stesso, bensì da quella dell’anima: « Praedicatio denominativa de aliquo est praedicatio accidentis de subiecto » (cfr. I. DUNS SCOTI, Super librum praedicamentorum quaestiones, q. 37, n. 2).
[10] Secondo il Prentice (cfr. The basic..., o. c., p. 205), le conclusioni 2 e 3 non trovano riscontro nelle altre opere dello Scoto. Dottrinalmente, si connettono con Ord. I, d. 3, p. 1, q. 1-2, n. 58 e, forse, Quodl. V, nn. 7-9, mentre la concezione anselmiana delle perfezioni pure è ripresa in Ord. I, d. 8, p. 1, q. 1, nn. 22-24; ib., q. 3, n. 74 ss.; ib., q. 4, nn. 185-195; ib., d. 3, p. 1, q. 1-2, n. 38.
[11] Accidente è tutto ciò che non costituisce un essere, ma s’aggiunge ad esso come una perfezione che lo determina ulteriormente senza, tuttavia, inerirvi in maniera permanente. Lo Scoto, d’accordo con gli scolastici, distingue due tipi di accidenti: gli accidenti per se e gli accidenti per accidens o contingenti. Per esempio, la salute è un accidente per sé dell’essere vivente, mentre è dei tutto causale l’abilità di guarire in un cultore di musica. Gli accidenti per se sono così chiamati, perché rappresentano realtà classificabili secondo le categorie dell’essere (quantità, qualità, tempo, luogo, ecc.). Gli accidenti contingenti, invece, sono così chiamati, perché l’essere cui accedono è indifferente rispetto ad essi; né li produce né li esige, ma li ha di fatto perché in un certo senso, gli sono capitati addosso,.
[12] Cfr. § 85.
[13] Cfr. ARISTOTELE, Phys. II, 6, 198a 5-10: « Il caso o la fortuna sono cause di fatti dei quali potrebbero essere causa anche l’intelletto e la natura. Ora, poiché nulla d’accidentale è anteriore rispetto all’essenziale, quando certi fatti hanno una causa accidentale, è evidente che questa non è anteriore, ma posteriore rispetto all’intelletto e alla natura », Cfr. pure Phys. II, c. 5, 196b.
[14] Una natura, per esempio una pianta, si comporta sempre allo stesso modo, cioè deterministicamente, anche se nessuna causa estrinseca imprimesse un fine alla sua azione. Ciò vuol dire che opera per un fine, anche nell’ipotesi che esistesse da sola. Poiché, però, come natura non è in grado di prevedere e predeterminare il fine per cui agisce, è evidente che essa riceve la finalità da un essere che ama il fine e, quindi, che lo conosce e lo vuole.
[15] In altre parole: se la causa prima agisce per un fine questo influisce su essa o perché è amato con un atto di volontà o perché è amato solo in maniera naturale. Nel primo caso, la Causa Prima è dotata di volontà e, quindi, d’intelligenza. Nel secondo, no, perché la natura, secondo lo Scoto, si oppone alla volontà nel modo d’agire: quello della natura è necessario; quello della volontà è libero. Ma la causa prima non può tendere verso qualcosa di diverso da sé come una natura, cioè in maniera necessaria, altrimenti o avrebbe un fine distinto da sé, dal quale dipende — e, in tal caso, non sarebbe più Causa Prima — o amerebbe naturalmente solo se stessa — ma, in questo caso, non sarebbe causa del resto. Perciò l’unica ragione per cui la Causa Prima può agire per fine, è che lo voglia. Quindi, è dotata d’intelligenza e di volontà. Sul diverso comportamento della natura e della volontà cfr. P. SCAPIN, Contingenza e libertà divina in j. Duns Scoto in Miscellanea Francescana 64 (1964), 16 ss.
[16] Cfr. ARIST., Met. I, c. 2, 982a: « Non enim ordinari, sed ordinare oportet sapientem ».
[17] Il ragionamento si fonda sull’indissolubile connessione dell’intelligenza con il fine. Per scorgere tale connessione, bisogna pensare all’effetto prima che esista in sé e per sé, cioè quando esso è ancora possibile. A quali condizioni, per esempio, una casa possibile può diventare una casa attualmente esistente? A condizione che qualcuno la costruisca. Ma per costruirla deve farsene un’idea, progettarla e decidere di costruirla effettivamente. In altre parole, perché un effetto venga all’esistenza, bisogna che ci sia un’azione determinata, capace di produrlo, o perché ci sia tale azione bisogna che l’agente stesso si determini ad agire, il che non si ha se non quando egli è in grado di prevedere e di decidere quello che vuol fare. Tutto ciò implica che l’agente sia dotato d’intelligenza e di volontà.
[18] Questo punto evoca una delle maggiori tensioni speculative del sec. XIII: da una parte, il pensiero greco-arabo compenetrato di necessità; dall’altra, il pensiero biblico-cristiano permeato di libertà. Lo Scoto vi è tornato sopra spesso e si è impegnato a fondo per la sua chiarificazione. Cfr. Lectura I, d. 8, p. 2, q. un., nn. 215 217 d. 39, q. 1-5, nn. 39-44 53-57; Ord. I, d. 2, p. 1, q. 1-2, nn. 79-81; d. 8, p. 2, q. un., n. 250 ss.; d. 42, q un., nn. 11-14. Vedi pure P. SCAPIN, Contingenza e libertà divina..., o. c., pp. 24-37; L. IAMMARRONE, Contingenza e creazione nel pensiero di Duns Scoto in AA. VV., Deus et Homo..., o. c., pp. 461-480.
[19] La costatazione empirica e incontestabile che ci sono degli effetti contingenti si spiega solo riconoscendo che la causa opera contingentemente. Se essa operasse necessariamente, la necessità si comunicherebbe inevitabilmente a tutte le altre cause e, allora, nessun effetto contingente sarebbe più costatabile, perché tutto avverrebbe necessariamente.
[20] A proposito del modo d’agire della Causa Prima, dice lo Scoto, i Filosofi — coloro che non conobbero la Rivelazione o ne prescindono — sostengono esattamente l’opposto di quanto sostengono i Teologi: i Filosofi dicono che Dio opera necessariamente; i Teologi sostengono che Dio opera liberamente. Da Aristotele, la necessità dell’agire divino, è affermata nella Fisica (cfr. VIII, 1, 251a-252a 22; VIII, 6, 259b-260a 19), nella Metafisica (cfr. VIII, 8, 1050b 7-28; XI, 6 1071b 12-20), nel De coelo (cfr. II, 3, 286a 34-286b 9) e nel De generatione et corruptione (cfr. II, 10, 336a 23-236b 9). Avicenna l’afferma, a sua volta, nella sua Metafisica (cfr. VI, 2, 92ra; IX, 1, 101va-102rb), e Averroé l’afferma con eguale decisione in Epitome in libros Metaph. (cfr. comm. 4, ed. Juntina, VIII, f. 385, F-I) e in Destructio destructionum philosophiae Algazalis (cfr. disp. 1, ed. Juntina, IV, f. 15F-17F). A giudizio dello Scoto, l’errore fondamentale dei Filosofi fu quello di confondere la necessità ontologica, contrassegno di perfezione, con la necessità operativa, segno d’imperfezione. Tale presupposto rende incomprensibile l’incontestabile realtà della contingenza nel comportamento degli esseri, in particolare in quello della volontà libera.
[21] Difficile individuare l’autore o i sostenitori di questa posizione. Assai probabilmente vanno ricercati tra gli averroisti o tra i filosofanti.
[22] Per lo Scoto, la volontà agisce sempre liberamente: questo è il suo modo proprio d’agire. Le nature, invece, o tutti gli esseri privi di volontà, agiscono sempre necessariamente. A suo giudizio, questi due modi d’agire sono originali, irriducibili e inconfondibili. Sarebbe assurdo dire che una natura agisce liberamente e, viceversa, che una volontà agisce necessariamente. Dire che una volontà opera necessariamente sarebbe come dire che non è volontà. Si tenga presente, però, che l’atto della volontà è specificato dal suo oggetto che può essere necessario — è il caso dell’Essere infinito — o contingente — è il caso di tutti gli esseri finiti. Ciò fa sì che, pur agendo liberamente, la volontà ponga un atto necessario o contingente in rapporto all’oggetto che lo specifica. Si ha così, come conseguenza, che la volontà opera liberamente e contingentemente quando oggetto del suo agire sono gli esseri finiti, e liberamente e necessariamente quando oggetto del suo agire è l’essere infinito. Quest’ultima conseguenza — la volontà che opera liberamente e necessariamente, nello stesso tempo — sembrerebbe racchiudere l’assurdo — denunciato da Scoto nel testo — secondo il quale « produce necessariamente ciò che produce volontariamente ». Ma la realtà è diversa: non è assurdo dire che la volontà può agire liberamente e necessariamente, nello stesso tempo, giacché il primo avverbio indica il modo d’agire della potenza, mentre il secondo indica il modo d’essere dell’oggetto cui essa si riferisce con il suo atto. La contraddizione ci sarebbe, invece, se ambedue gli avverbi indicassero il modo d’agire della potenza perché, allora, si affermerebbe che il suo modo d’agire è libero, cioè indeterminato, e necessario, cioè determinato, nello stesso tempo.
[23] C’è una duplice contingenza: una riguarda l’essere e dipende dalla causa formale e una riguarda il divenire e dipende dalla causa efficiente. Ogni essere finito è contingente, se si considera la sua essenza, ma non ogni essere finito è contingente se si considera la sua realizzazione. Anzi, tutti gli effetti che derivano dalla natura, cioè da esseri che operano deterministicamente, sono da essi prodotti in maniera necessaria, pur essendo essenzialmente contingenti. Qui lo Scoto fa notare che la contingenza di cui parla è quella che riguarda il divenire e, più particolarmente, quella che si manifesta nel comportamento libero della volontà umana. Questa contingenza è inconcepibile se la Causa Prima non opera liberamente. In altre parole, solo la libertà divina può fondare e garantire l’esercizio della libertà umana: se Dio opera necessariamente, la libertà umana è irreparabilmente compromessa.
[24] Anche l’esistenza del male, sia fisico che morale, prova che il Primo Efficiente opera liberamente e, quindi, è dotato d’intelligenza e di volontà.
[25] La quinta prova dell’intelligenza e della volontà divina, si fonda sulla gerarchia degli esseri determinata dalla loro rispettiva perfezione: gli esseri animati sono più perfetti di quelli inanimati e, tra gli esseri animati, quelli dotati d’intelligenza sono più perfetti di quelli che ne sono privi. è logico, quindi, che l’Essere Primo, ch’è il più perfetto, si collochi tra gli esseri dotati d’intelligenza. Si rileverà facilmente che questa prova, imperniata sulla dialettica platonica dei gradi di perfezione, è appena abbozzata dallo Scoto. Segno, forse, che non doveva esercitare una particolare forza persuasiva sul suo animo.
[26] Cfr. §§ 86 ss.
[27] Non c’è alcun dubbio, neppure per lo -Scoto, che la sapienza, per esempio, sia una perfezione pura. Ma dire che Dio è sapiente e, quindi, ch’è dotato d’intelligenza e di volontà, significa dare per dimostrato quello che precisamente si deve dimostrare. Infatti, come si può dire che Dio è sapiente se ancora non si sa, con certezza, se sia intelligente? In tal modo, si dice che è sapiente per dimostrare che è intelligente e poi si dimostra che è sapiente perché è intelligente.
[28] Teoricamente, ci si può domandare se l’umanità sia migliore dell’animalità pura e semplice; si può, cioè stabilire un confronto tra il contenuto intelligibile di due formalità per vedere quale di esse rappresenti l’attributo migliore per un essere determinato. Allo stesso modo, si può domandare se essere ‘angelico’ è meglio che essere ‘sapiente’ di modo che l’affermazione: « quest’essere è angelico » rappresenti qualcosa di meglio dell’affermazione: « quest’essere è sapiente ». Ebbene, dice lo Scoto, in questo senso non si può escludere che l’essenza del primo angelo sia migliore della sapienza. In ogni caso, però, bisogna che ambedue fungano da attributi e non da sostantivi.
[29] Tutta la discussione che va dal § 96 al § 99 sottintende che non si possono considerare come perfezioni pure le diverse essenze che rappresentano le forme sostanziali, perché queste non possono mai essere attributi. Quando esistono concretamente, esse costituiscono sempre dei soggetti e non degli attributi. Le perfezioni pure, invece, rappresentano degli attributi.
[30] Cfr. § 91.
[31] Cfr. § 91.
[32] Le difficoltà sollevate in questo paragrafo puntualizzano il problema della collaborazione tra la Causa Prima e le cause seconde. In breve: se Dio opera necessariamente, tutti gli altri esseri operano allo stesso modo e, così, scompare la libertà umana. Se Dio opera contingentemente, tutti gli esseri operano allo stesso modo e, tosi, scompare il determinismo della natura. Dunque, non è possibile affermare, nello stesso tempo che Dio è necessario nell’essere e libero nell’agire.
[33] Dopo aver puntualizzato il problema dei rapporti fra Causa Prima e cause seconde, lo Scoto ne omette la soluzione, rinviando a un’altra sua opera quasi certamente smarrita. Infatti, la distinctio che tratta dello stesso argomento nell’Ordinatio (cfr. I, 39; VI, 418 ss.) non si può considerare de manu Scoti o scritta dallo stesso Scoto, giacché il codice A 137, su cui si basa l’attuale testo critico dell’Ordinatio, già nel corso della distinzione 38, dice che il testo successivo fino alla distinzione 40 non si trova nella redazione definitiva dello Scoto (album in Scoto). Ciò vuoi dire che la stesura della dist. 39, che tratta precisamente della questione presente, si deve, forse, a un discepolo che la compose servendosi di notazioni del maestro o di appunti di condiscepoli. Abbastanza pertinente è, comunque, il contenuto della Lectura I, d. 39, q. 1-5, n. 38 ss.
I commentatori dello Scoto hanno cercato di colmare la presente lacuna ricavando i principi per risolvere il difficile problema dagli altri suoi scritti. Così, per esempio, Bartolomeo Mastri (1602-1673), uno dei più acuti interpreti del pensiero scotista, risolve nel modo seguente le quattro difficoltà precedenti: 1) la necessità dell’essere non esclude la contingenza dell’agire perché la prima riguarda l’essenza stessa di Dio, che è ontologicamente necessaria, mentre la seconda riguarda l’oggetto dell’operazione divina: quando questa ha come termine la produzione degli esseri essenzialmente contingenti, essa sarà evidentemente contingente, giacché ogni operazione è specificata dal suo oggetto; 2) la determinazione eterna della volontà divina e l’indeterminazione temporale della volontà umana non si escludono, giacché la prima prevede la seconda e vuole precisamente che sia indeterminata nel suo modo d’agire; 3) proprio per questo motivo, la volontà umana si autodetermina, in conformità della sua essenza che è la libertà, sotto l’impulso della mozione divina, sia per il bene come per il male; 4) le nature agiscono in maniera predeterminata, ma la necessità del loro comportamento è relativa e, in ultima analisi, è contingente proprio in virtù del concorso contingente della Causa Prima. Cfr. B. MASTRII, Disputationes — in XII Metph. d. VI, q. 6 in Philosophiae ad mentem Scoti cursus integer, t. IV, Venetiis, 1708, p. 258 ss.
[34] Cfr. § 17.
[35] Cfr. § 56.
[36] Cfr. § 57.
[37] Cfr. § 69.
[38] Cfr. § 76.
[39] Cfr. § 19.
[40] Cfr. § 89.
[41] Lo Scoto vuole dimostrare che, in Dio, essere, conoscere e volere sono la stessa cosa. La prova di questa identità si riassume nel rilevare che Iddio è, ontologicamente, uno ed unico. La sua natura è di essere intelligente e libero. Ciò fa sì che egli sia, nello stesso tempo e identicamente, soggetto e oggetto della conoscenza e della volizione.
[42] La natura intellettuale de « Il Primo Principio degli esseri » fa sì che Egli pensi. Ma qual è l’oggetto del pensiero divino? Un oggetto deve pur averlo, altrimenti sarebbe pensiero di nulla, cioè un non pensiero. D’altra parte, l’oggetto del pensiero divino non potrebbe essere distinto da Dio stesso, altrimenti la sua attualità dipenderebbe da esso e Dio non sarebbe più atto puro di essere, ma potenza. Lo stesso valore del suo atto, poi, dipenderebbe da qualcosa di diverso da Dio, il che è inconcepibile. Perciò, oggetto del pensiero divino non può essere che Dio stesso; questi è autocoscienza pura: in Lui pensiero, pensante e pensato sono la stessa cosa. Tale è, in sintesi, il contenuto del passo aristotelico cui rinvia lo Scoto (cfr. ARIST., Met. XII, 9, 1074b).
[43] L’attività transitiva è quella che ha come termine un essere diverso dall’agente che la pone; l’attività immanente, invece, è quella che rimane nell’agente stesso come perfezione di esso. Così la costruzione d’una casa è attività transitiva, mentre la riflessione è attività immanente per eccellenza. Questo significato dell’attività è comune e corrente presso tutti gli scolastici.
[44] Cfr. § 89.
[45] La potenza recettiva esprime il grado di plasticità d’una cosa o la sua capacità d’essere modellata secondo varie forme.
[46] Cfr. ARISTOTELE, Met. XII, 9, 1074b, 27-8; ed. Carlini, p. 122: « Se (Dio) non è pensiero in atto, ma potenza di pensare, bisognerebbe dire che la continuità del pensare sarebbe per lui una fatica ». Il valore probabile di questo ragionamento lo Scoto lo arguisce dalla stessa forma grammaticale, che a lui si presentava così: « Primum quidem igitur, si non est intelligentia, sed potentia, rationabile est laboriosam esse ei continuationem intelligentiae ».
[47] La dimostrazione si potrebbe, forse, così formulare: la potenza conoscitiva viene attuata dall’oggetto della conoscenza e, quando ciò si verifica, si ha l’atto di conoscenza. Pertanto, nella conoscenza che Dio ha di sé, la sua potenza conoscitiva è attuata dall’oggetto che è Lui stesso, di modo che, Dio come soggetto pensante e Dio come oggetto pensato, sono la stessa identica realtà. Lo Scoto ritiene che questo ragionamento non valga, perché in primo luogo, suppone in Dio la distinzione tra atto primo e atto secondo — distinzione che, in realtà, non c’è, perché Dio è atto puro — e, in secondo luogo, confonde l’identità intenzionale con l’identità reale.
[48] Lo Scoto ricava quattro corollari riguardanti l’identità della volontà e dell’intelligenza con lo stesso « Primo Principio degli esseri ». Per comprendere l’andamento della sua riflessione, si tenga presente che l’analisi della conoscenza e della volizione induce a distinguere rispettivamente: il conoscente o soggetto della conoscenza, il conoscere o atto di conoscere e il conosciuto o oggetto della conoscenza e, allo stesso modo, il volente o soggetto della volizione, il volere o atto di volontà e il voluto o oggetto del volere. Queste distinzioni sono legittime anche in Dio, ma non sono reali, perché una ed unica è la sua realtà. Alla scoperta di questa unità reale in Dio, lo Scoto giunge in due fasi: nella prima, una volta scoperto che Dio esiste, si rende conto che Egli, per essere Causa Prima, deve avere l’atto di conoscenza e di volontà e, quindi, l’intelligenza e la volontà da cui tali atti promanano; nella seconda, facendo, per così dire, marcia indietro, dimostra, prima, che gli atti di conoscenza e di volontà si identificano con l’essenza divina e poi che tale essenza è intelligenza e volontà, dato che ambedue si identificano con il loro atto identificato a sua volta con la stessa Natura Prima.
[49] Cfr. § 104.
[50] Se ci fosse una conoscenza accidentale in Dio, questa sarebbe una determinazione che attua una certa potenzialità del suo intelletto, sia che l’intelletto divino venga considerato come conoscente sia che esso venga considerato come conoscere. In ambedue i casi, si implicherebbe in Dio una certa passività, affatto incompatibile con la sua attualità pura. Avverrebbe pure che la conoscenza accidentale, meno perfetta che la conoscenza essenziale, attuerebbe o perfezionerebbe la conoscenza che Dio ha di sé.
[51] Cfr. § 85.
[52] Cfr. §§ 108 ss.
[53] L’equivoco qui rilevato è quello che la logica definisce come sofisma dell’accidente. Esso consiste nel ritenere che due cose, tra loro diverse, ma parzialmente convergenti in una terza, si identificano anche tra loro. Per esempio, scrive Aristotele: « Se Corisco è differente da Socrate, e Socrate è un uomo, i sofisti affermano che con ciò si è riconosciuto che Corisco è qualcosa di differente dall’uomo, dato che ciò da cui Corisco si è detto differire è appunto un uomo » (cfr. Confutazioni sofistiche 5, 166b 28-30; ed. Colli, p. 654). Nel caso presente, si ha quello che gli scolastici chiamano il terzo modo del sofisma, che ha luogo quando da alcune cose che prese separatamente sono vere si deduce che sono vere anche congiuntamente, come nell’esempio seguente: « quest’uomo è buono ed è un violinista. Dunque è un buon violinista ». Ciò che è vero separatamente è solo casuale che lo sia anche congiuntamente.
[54] Secondo la teologia cattolica, il Cristo è uomo e Dio. Perciò, il suo conoscere è divino e umano insieme. A suo riguardo, i teologi parlano di scienza divina e di scienza umana. Questa, poi, in rapporto al modo di acquisizione, sarebbe scienza beatifica, infusa e sperimentale. La maniera di spiegare la coesistenza di queste molteplici forme di conoscenza varia. Per lo più si dice che una stessa cosa può essere conosciuta sotto vari aspetti e tosi divenire oggetto di più conoscenze. Lo Scoto ha esaminato ampiamente il problema in Ox. III, d. 14, q. 1-4. In tale contesto, egli discute anche l’interessante questione della conoscenza propria dell’uomo nell’al di là. Cfr. L. IAMMARRONE, L’io psicologico di Cristo secondo la dottrina di Duns Scoto in AA. VV., De doctrina..., o. c., III, pp. 291316; R. PRENTICE, The degree and mode of Liberty in the Beatitude of the Blessed in AA. VV., Deus et Homo..., o. c., pp. 327-342.
[55] La teoria dell’oggetto primo dell’intelletto è una delle tesi più significative del pensiero scotista. Lo Scoto l’elabora in base all’intelletto umano affrontando, in termini medievali, il problema moderno della possibilità o meno della metafisica. In questo paragrafo, si limita ad enunciare la tesi rinviando, per la sua dimostrazione, alle altre opere, in particolare al Commento al De Anima (cfr. qq. 19-21) e all’Ordinatio (cfr. dist. 3, p. 1, q. 3, nn. 108-201; ed. Vaticana III, pp. 68-123). In sintesi, la teoria scotista si può riassumere in tre punti: 1) puntualizzazione del problema, 2) soluzioni insoddisfacenti, 3) soluzione valida. Determinando il senso del problema, lo Scoto avverte che per oggetto primo dell’intelletto bisogna intendere la realtà cui, di natura sua, l’intelletto è ordinato, la realtà in virtù della quale ogni altra diventa conoscibile. Così, per esempio, oggetto primo della vista è il colore: il nostro occhio vede le cose solo in quanto sono colorate. Ciò significa che l’occhio, propriamente, vede il colore delle cose e, per mezzo del colore, scorge le cose alle quali inerisce. In questo senso, l’oggetto primo definisce l’ambito della visione e ne condiziona ogni atto. Ebbene, che cosa rappresenta per l’intelletto ciò che il colore rappresenta per l’occhio? A questo interrogativo, dice lo Scoto, si sono date due risposte che non sembrano accettabili tosi come si presentano: la prima dice che oggetto primo dell’intelletto umano è l’essenza delle cose materiali, ricavata per mezzo dell’astrazione; la seconda sostiene che tale oggetto è rappresentato da Dio stesso. In effetti, pensa lo Scoto, né l’una né l’altra sembrano soddisfacenti. Non la prima, perché se fosse vera ne risulterebbe che all’intelletto umano è preluso ogni altro modo di conoscere e che le realtà spirituali sono inaccessibili alla nostra conoscenza intellettiva. Ma queste due conseguenze sono smentite, se non altro, dalla Metafisica che studia l’essere come tale, a differenza della Fisica, aristotelicamente intesa, che studia la realtà materiale.
Neppure la risposta che indica Dio come oggetto primo dell’intelletto umano è accettabile, perché, se è vero che Dio è l’intelligibile per eccellenza, quindi è fonte e causa dell’intelligibilità di tutte le cose, è vero anche che si può avere un’esatta conoscenza, per esempio, d’uomo, di pianta, ecc., senza sapere nulla di Dio. D’altra parte, nella condizione presente, la nostra conoscenza di Dio è concettuale e si risolve nel concetto di essere e d’infinito. è evidente che, in tali condizioni, Dio non può rappresentare per l’intelletto quello che il colore rappresenta per l’occhio.
In realtà, le caratteristiche dell’oggetto primo dell’intelletto umano e di qualsiasi intelletto, sono rivestite solo dell’essere perché d’ogni cosa l’intelletto conosce anche il suo concreto modo di essere. Dunque, l’intelletto, di natura sua, è ordinato alla conoscenza dell’essere, in tutta la sua estensione e in tutta la sua comprensione. E l’intelletto umano, considerato assolutamente, cioè in quanto è intelletto, è orientato anch’esso alla conoscenza dell’essere. Ciò vuol dire che il nostro intelletto è costituzionalmente ordinato a conoscere l’essere nella sua totalità. Di fatto, però, la nostra attività intellettiva coglie anzitutto l’essenza della realtà materiale. è la Sua condizione esistenziale — pro statu isto — che obbliga l’intelletto umano a partire dalla realtà sensibile. Il motivo di tale condizione esistenziale? Dio ha disposto che, per ora, l’attività intellettiva nell’uomo si realizzi solo in intima connessione con l’attività sensitiva. (Cfr. Ord. I, d. 3, p. 1, q. 3, nn. 108-188).
[56] Questa obiezione rimane senza risposta qui come nel passo parallelo dell’Ordinatio (cfr. d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 110). Là, però, lo Scoto invita a cercar la risposta altrove: « Responsionem quaere ». Gli annotatori dell’edizione critica rinviano al commento della Metafisica: cfr. In Metaph. I, q. 5, nn. 3-4; VII, p. 2, q. 15, n. 1. Ivi si legge « Planum est quod expertus certius operatur artifice inexperto: quia cognitio experimentalis est per se singularis, circa quod est operatio per se; cognitio autem artis est universalis per se, et si est singularis, hoc est ex consequenti, et per accidens: quia igitur expertus certius cognoscit operabile quam artifex, ideo certius operatur » (q. 5, n. 3).
In altre parole, non basta l’arte intesa come norma generale, ma ci vuole una conoscenza singolare e distinta per produrre oggetti concreti.
[57] Cfr. § 56 ss.
[58] Cfr. §§ 81 ss.
[59] Cfr. §§ 57 ss. Che la realtà delle cose distinte da Dio non sia necessaria, ma contingente, appare, soprattutto, dal carattere evolutivo che è loro proprio. Gli scolastici rilevano, in genere, come indubbio segno di contingenza nell’essere la generazione e la corruzione cui sono soggetti gli esseri di quaggiù.
[60] Cfr. §§ 76 ss.
[61] Cfr. Rom. 11, 33.
[62] La prima delle sette vie o dimostrazioni dell’infinità divina prende in considerazione, come le due che la seguono, il conoscere divino. L’intelletto divino, dice lo Scoto, conosce sempre, distintamente e simultaneamente, la totalità delle cose possibili. Queste sono infinite in potenza e sono potenzialmente conoscibili da un intelletto finito, perché questo le conosce solo successivamente. Ma l’intelletto divino, che si identifica con l’essere stesso di Dio, le conosce in atto, altrimenti dipenderebbe da loro nell’atto di conoscerle, ciò che rimane escluso dal suo carattere assolutamente primo. Quindi, l’intelletto divino, in quanto conosce in atto l’infinità delle cose possibili, è attualmente infinito. E infinito è pure l’essere divino con cui l’intelletto divino si identifica.
[63] Cfr. §§ 108 ss.
[64] L’entimema è un sillogismo nel quale si sottintende una premessa o una conclusione. Quello presente si riduce a dire questo: gli intelligibili sono infiniti; l’intelletto che li conosce tutti in atto è infinito.
[65] Lo Scoto ribadisce la sua tesi relativa ai rapporti tra conoscenza universale e conoscenza singolare. Cfr. § 113. Il problema dell’individuazione è esaminato dallo Scoto nel commento alla Metafisica aristotelica (cfr. Quaestiones subtilissimae in Metapsysicam VII, q. 13) e nell’Ordinatio (cfr. II, d. 3, qq. 1-5).
[66] Cfr. § 113.
[67] I Filosofi sostengono che può essere infinito il numero di individui d’una stessa specie. Negano, però, che possa essere infinito il numero delle specie. Lo Scoto, viceversa, non trova impossibile che l’infinità si estenda anche alle specie e, a sostegno di tale opinione, cita S. Agostino là dove questi critica la tesi di coloro che negano a Dio la possibilità di conoscere l’insieme delle cose possibili, considerate infinite (cfr. S. AGOSTINO, De Civitate Dei XII, 18; PL. 41, 367-8).
[68] La seconda via per dimostrare l’infinità dell’essere divino passa attraverso l’infinita intelligibilità dello stesso essere divino. Questa, dice lo Scoto, è oggetto della conoscenza divina e, come tale, è causa dell’atto conoscitivo di Dio. Ora, conoscendo la propria essenza, Dio conosce pure tutte le altre cose e così perfettamente che più non si potrebbe. Ciò significa che l’intelligibilità delle cose, aggiunta a quella dell’essenza divina, non l’aumenta per nulla. Ma ciò che non aumenta né può aumentare è infinito. Quindi, l’essenza divina è infinita.
[69] Per la distinzione fra conoscenza intuitiva e astrattiva cfr. D. DE BASLY, L’intuition de l’extramental in Études Franciscaines 48 (1936), 265-279; L. VEUTHEY, L’intuition scotiste et le sens du concret, Ib. 49 (1937), 76-79; S. BELMOND, Le scotisme philosophique manque-t-il de cohérence?, Ib. 49 (1937), 178-88; S. DAY, Intuitive Cognition, St. Bonaventure, N. Y., 1957.
[70] Cfr. §§ 108 ss.
[71] Cfr. § 85.
[72] Per conoscenza scientifica lo Scoto intende quella che noi, oggi, chiamiamo conoscenza filosofica. Per essere veramente scientifico, aveva già precisato Aristotele cfr. Secondi An. I, 2, 71b; ed. Colli; p. 729), il sapere deve avere quattro caratteristiche: essere certo; avere un oggetto necessario; essere prodotto dall’evidenza e dedotto per via sillogistica. Lo Scoto accoglie questa nozione precisando, però, che quanto qualifica il sapere scientifico è la certezza e l’evidenza, non necessariamente l’oggetto necessario e il processo sillogistico.
[73] Cfr. S. AGOSTINO, De Trinitate IX, 12, n. 18; PL. 42, 970.
[74] Cfr. § 120, nota 69. Per un’analisi dell’intuizione dell’essere, vedi: C. GIACON, L’intuizione dell’essere in Duns Scoto in AA. VV., De doctrina.., o. c., II, pp. 33-45.
[75] La conoscenza d’una causa ottenuta a partire da uno dei suoi effetti si chiama, comunemente, a posteriori; viceversa,. la conoscenza di un effetto conseguita a partire dalla sua causa, si dice a priori. Ambedue sono forme di conoscenza mediata nel senso che, in ogni caso, una cosa è conosciuta per mezzo di un’altra. Tra le due forme, però, quella a priori si ritiene più perfetta di quella a posteriori. Lo Scoto rileva, giustamente, che la maggiore perfezione della conoscenza a priori è data dal fatto che, conoscendo l’effetto per mezzo della causa, uno conosce anche l’effetto in sé, in quanto la sua perfezione è presente, in maniera formale o eminente, nella causa stessa.
[76] La causa finita prima va intesa in senso relativo, in rapporto cioè a una serie di individui della stessa specie, com’era la Prima Intelligenza secondo i Filosofi.
[77] Lo Scoto si riferisce alle concezioni dei Filosofi, in particolare, ad Avicenna per il quale Dio è causa diretta solo della Prima Intelligenza o « prima natura causata ». Cfr. A.-M. GOICHON, La distinction de l’essence et de l’existence d’après Ibn Sina (Avicenne), Paris, 1937, pp. 213, 224-284.
[78] Cfr. § 41, nota 45. La confutazione di cui si parla è più teoretica che storico-critica. Egli afferma, sulla base dell’esperienza incontestabile, che l’efficacia delle cause seconde è un’autentica efficacia e non una semplice occasione attraverso la quale si esplica l’unica efficacia della Causa Prima assoluta, Dio, o della causa prima relativa, detta Prima Intelligenza.
[79] La terza via per dimostrare l’infinità dell’essere divino si fonda, come le due precedenti, sul conoscere divino. Mentre, però, la prima via ne sottolineava l’ampiezza, arguendone l’infinità intensiva ed estensiva in rapporto alle cose possibili, e la seconda in rapporto alla essenza stessa de « Il Primo Principio degli esseri », la terza via ne rileva il carattere sostanziale e, quindi, sussistente.
[80] Cfr. §§ 100 ss.
[81] Cfr. §§ 108 ss.
[82] Cfr. § 82, nota 4.
[83] Appare anche qui l’indole prevalentemente teoretica de « Il Primo Principio degli esseri ». La presenza e il vaglio delle opinioni altrui è finalizzata dallo scopo di elaborare una sintesi più concisa possibile di teologia naturale.
[84] La quarta via si fonda sulla semplicità essenziale de « Il Primo Principio degli esseri ». Solo ciò che è composto è finito. Ciò che non è composto è infinito, perché nulla limita la sua perfezione. Tale è l’Essere puro.
[85] Cfr. § 82.
[86] La quinta via per dimostrare l’infinità dell’essere divino apre un’interessante prospettiva per la riflessione scotista. Essa, infatti, consente allo Scoto di operare un ricupero del celebre argomento di S. Anselmo. Fondamento della via è il fatto che l’infinità non sia incompatibile con l’essere o che l’essere infinito non sia intrinsecamente contraddittorio. Il concetto in questione risulta composto di altri due concetti: quello di « essere » e quello di « infinito ». Il primo, dice lo Scoto, è originario o immediato; riflette, cioè, ed esprime un’esperienza incontestabile e « non si può chiarire per mezzo di un concetto più noto ». Il secondo, invece, non è né originario né immediato, giacché si forma in noi, dialetticamente, mediante l’esperienza del suo contrario, cioè del finito. Di qui, il carattere a posteriori dell’argomentazione.
[87] Cfr. § 55.
[88] Cfr. Ord. I, d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 132; Quodl. VI, a. 1, n. 9: « Cui non repugnat infinitas, illud non habet totalem plenitudinem sibi possibilem nisi sit infinitum; hoc patet, quia solo infinitas est summa plenitudo eius cui est compossibilis; nunc autem, primo obiecto tam intellectus quam voluntatis infinitas non est incompossibilis, quia sive sit ens sive verum, vel aliquod tale abstractum ab omnibus... patet quod infinitas non repugnat sibi; ergo non habet totalem plenitudinem suam nisi habeat infinitatem ».
[89] Cfr. § 131, nota 86.
[90] « La speculazione scotista sull’infinito porta ad un approfondimento del rispettivo concetto, il quale se non era del tutto estraneo al pensiero dei Greci (cfr. R. MONDOLFO, L’infinità nel pensiero dell’antichità classica, Firenze, 1956), tuttavia era oscurato da scorie, contraddizioni e confusioni molteplici» (cfr. N. PETRUZZELLIS, L’infinito nel pensiero di S. Tommaso e di G. Duns Scoto in AA. VV., De doctrina..., o. c., II, p. 443). Lasciando da parte l’infinito d’ordine quantitativo di cui parla Aristotele (cfr. Phys. III, c. 6, 207a), lo Scoto fissa l’attenzione sull’infinito di ordine entitativo e così ne precisa il concetto: « Possumus ens ‘infinitum in entitate’ sic describere quod ‘ipsum est cui nihil entitatis deest, eo modo quo possibile est illum haberi in aliquo uno’; et hoc pro tanto additur quia non potest in se realiter et formaliter per identitatem omnem entitatem habere. Potest etiam describi per excessum ad quodcumque aliud ens finitum sic: ‘ens infinitum est quod excedit quodcumque ens finitum, non secundum aliquam determinatam proportionem, sed ultra omnem determinatami proportionem vel determinabilem » (cfr. Quodl. V, n. 4).
[91] Una volta esclusa la possibilità di fornire una dimostrazione apodittica dell’essere infinito indipendentemente dall’esperienza, lo Scoto osserva che, tuttavia, si possono addurre a priori, alcune ragioni per dimostrare l’intrinseca possibilità dell’essere infinito. Nessuna di esse è assolutamente certa, ma ciascuna racchiude un certo grado di probabilità a tal punto da poter essere considerata una prova che Aristotele definirebbe come dialettica o probabile.
[92] Il principio è quello enunciato all’inizio del 4 137: « come si deve ritenere possibile ciò che non è evidentemente impossibile, così bisogna ritenere compossibile ciò di cui non appare l’evidente incompossibilità ».
[93] La celebre dimostrazione si legge nel c. II del Proslogio (cfr. S. ANSELMO, Monologio e Proslogio, a cura di A. M. Moschetti, Padova, 1948, p. 118). In sintesi, S. Anselmo scrive: Dio è l’essere sommo. Ora, egli non può essere solo un’idea; deve essere anche una realtà, altrimenti non sarebbe più essere sommo. Infatti, se fosse soltanto un’idea, si potrebbe pensare che fosse anche una realtà; il che lo farebbe maggiore, essendo maggiore essere nella mente e nella realtà che essere solo nella mente. In tal caso, l’essere sommo sarebbe sommo, perché è pensato come tale, e non sarebbe sommo perché è pensato solo nella mente. Ma ciò è contraddittorio. Dunque, per evitare la contraddizione, bisogna pensare che sia nella mente e nella realtà, nello stesso tempo, cioè che esista.
Le vicende storiche di questo argomento sono singolarissime: alcuni l’hanno accettato senz’altro (S. Bonaventura, Leibniz, Cartesio, Hegel); altri l’hanno respinto costantemente e decisamente (S. Tommaso, Kant); altri, infine, hanno cercato di « valorizzarlo ». Tra questi ci sembra che si debba considerare lo Scoto. Ma in che cosa consiste la sua « valorizzazione »? (Cfr. R. PRENTICE, The basic..., o. c., pp. 203-204): «In these cases Scotus used bis transformation to prove, not precisely the existence of the Supreme Nature, but its infinity »; C. BÉRUBÉ, Pour une histoire... in AA. VV., Deus et Homo..., o. c., p. 46: « La coloration de la ratio Anselmi met en oeuvre, non des considérations a priori sur la possibilité logique de l’existence de Dieu, mais la complaisance de l’intelligence dans la pensée de Dieu, comme le Pensable supreme non contradictoire. L’argument a priori du Proslogion est cinsi devenu un argument a posteriori garanti par l’inclination naturelle de l’intelligence »).
La valutazione del Prentice e del Bérubé sono le più recenti espressioni di un duplice orientamento nell’interpretazione da parte degli studiosi (cfr. E. BETTONI, L’ascesa a Dio in Duns Scoto, Milano, 1943, p. 19 ss.). Per parte nostra, « ci sembra di poter concludere dicendo che l’atteggiamento del Dottor Sottile di fronte all’argomento anselmiano si può sintetizzare in tre affermazioni: prima, esso non può essere considerato come una proposizione analitica, ma è un vero e proprio argomento. Proprio per questo non ha senso addurlo a conferma dell’inutilità di dimostrare l’esistenza di Dio. Seconda, così come si presenta, cioè a priori sotto l’aspetto ontologico e metodologico, sarà sempre una dimostrazione probabile, mai una prova certa dell’esistenza di Dio. Terza, quando sia debitamente colorato; esso diviene una prova corretta e valida per consentire alla mente umana di acquisire la certezza razionale dell’esistenza di Dio » (cfr. P. SCAPIN, Atteggiamento dello Scoto di fronte all’argomento anselmiano in Il Santo 11 (1971), 351. Dal punto di vista storico, bisogna dire che la colorazione non è originale, giacché essa riprende l’interpretazione proposta da un altro francescano, più vecchio dello Scoto di circa 15 anni, Pietro di Giovanni Olivi (cfr. C. BÉRUBÉ, Pour une histoire..., o. c., p. 46).
[94] La realtà quidditativa è l’esistenza possibile o la possibilità logica e reale unitamente considerate.
[95] Cfr. § 53.
[96] Cfr. § 54.
[97] Lo Scoto, in questo secondo tentativo di valorizzazione, punta sulla distinzione tra la conoscenza intuitiva e la conoscenza astrattiva, ribadendo la sua convinzione secondo cui la conoscenza astrattiva, in quanto ci fa conoscere le cose solo nei loro aspetti universali, è approssimativa, inadeguata e, comunque, meno perfetta della conoscenza intuitiva che coglie compiutamente l’intelligibilità d’una cosa in tutta la sua ricchezza singolare.
[98] La sesta via contiene in germe quella che, comunemente, si chiama dimostrazione dell’esistenza di Dio mediante il desiderio di conoscere e di possedere Dio. Per la storia di questa prova cfr. R. GARRIGOU-LAGRANGE, Dieu, son existence et sa nature, Paris, 1950, pp. 304-407.
[99] Questo punto illustra il criterio di onestà intellettuale dello Scoto nei confronti dei suoi interlocutori, criterio da lui così enunciato altrove: « Nolo eis (philosophis) imponere absurdiora quam ipsi dicant, vel quam ex dictis eorum necessario sequantur, et ex dictis eorum volo rationabiliorem intellectum accipere quem possum » (cfr. Ord. I, d. 8, p. 2, q. un., n. 250).
[100] Cfr. ARIST., Phys. VIII, 10, 166a. La verità che Aristotele vuol sottolineare è la seguente: l’agire dipende dall’essere non solo nel senso che per agire bisogna prima essere, ma anche nel senso che esso è proporzionato all’essere da cui dipende. Perciò, un muovere infinito implica un essere infinito.
[101] Nella Metafisica Aristotele ribadisce lo stesso pensiero già espresso nella Fisica (cfr. Met. XII, 7, 1073a 3-13).
[102] Sull’infinità numerica e specifica cfr. S 119, nota 67. Cfr. pure S 47, nota 7.
[103] Cfr. § 47, nota 7.
[104] Cfr. §§ 117 ss.
[105] Cfr. § 120.
[106] Secondo ogni concezione emanatista, in particolare avicenniana (cfr. 5 124), Dio sarebbe causa totale immediata soltanto della Prima Intelligenza (cfr. A: M. GOICHON, La distinction de l’essence et de l’existence d’après Ibn Sina (Avicenne), Paris, 1937, p. 224 ss.).
[107] Nonostante il sincero tentativo di valorizzare in rapporto all’infinità dell’essere divino l’argomento che Aristotele elabora per dimostrare la potenza infinita del Primo Movente, lo Scoto si dichiara insoddisfatto del suo valore.
[108] Lo Scoto distingue una duplice onnipotenza divina: l’onnipotenza dei Filosofi, chiamata, per lo più, potenza infinita e l’onnipotenza dei Cattolici o Teologi, detta onnipotenza teologica. L’onnipotenza che i Filosofi riconoscono a Dio si riassume nella capacità che Dio ha di realizzare ogni cosa possibile sia da solo, sia in collaborazione con altri agenti. Si tratta, dunque, d’una autentica potenza infinita. Poiché, però, è la potenza di una Causa Prima che, a giudizio dei Filosofi, opera in maniera necessaria, per produrre certi effetti essa non ha bisogno d’un supplemento di vigore, ma, al contrario, d’un riduttore di potenza, altrimenti produrrebbe tutto, da sola, e in maniera perfetta. Perciò, senza la collaborazione delle cause seconde, la Causa Prima non potrebbe produrre effetti limitati o imperfetti. Sotto questi aspetti, la potenza infinita dei Filosofi rivela la mancanza di libertà in « Il Primo Principio degli esseri ». L’onnipotenza dei Cattolici, invece, dice che Dio può realizzare ogni essere possibile, perfetto o imperfetto che sia, con o senza il concorso delle cause seconde. La differenza tra le due forme d’onnipotenza salta agli occhi: quella dei Filosofi è l’onnipotenza d’una Natura, cioè d’un Essere Primo che opera deterministicamente; quella dei Cattolici è l’onnipotenza d’una Volontà, cioè d’un Essere Primo che è libertà per essenza (cfr. L. PUSCI, La nozione della divina onnipotenza in I. Duns Scoto, Roma, 1967). Il carattere problematico della posizione scotista su questo punto è rilevato da A. GHISALBERTI, Il Dio dei teologi e il Dio dei filosofi secondo Duns Scoto in AA. VV., Deus et Homo..., o. c., pp. 153-164.
[109] Questa notazione lascia chiaramente intendere che nell’intenzione dello Scoto, « Il Primo Principio degli esseri » è stato concepito come la prima parte di un dittico, destinato a presentare sinteticamente tutto ciò che si può dire di Dio basandosi esclusivamente sulla ragione, in un primo momento, e fondandosi sulla rivelazione, nel secondo momento. Alcuni vorrebbero identificare il secondo trattato con i Theoremata. Ma ci sono serie difficoltà contro tale identificazione, soprattutto, perché un gran numero dei Theoremata non si occupa affatto di ciò che si può dire teologicamente di Dio. Tutto sommato, è probabile che la seconda parte del dittico o non sia mai stata composta dall’autore o, se fu composta, sia andata perduta.
[110] Cfr. § 141, nota 108.
[111] Parlando dell’assoluta immobilità del Primo Movente, Aristotele scrive: « Egli è, dunque, necessariamente e, in quanto è necessariamente, è in maniera perfetta, ed è così principio di tutto » (cfr. Met. XII, 7, 1072b; ed. Carlini p. 409).
[112] Cfr. AVICENNA, Met. VI, 2. Cfr. pure § 21, nota 14.
[113] Cfr. §§ 76 ss.
[114] Lo Scoto non è convinto che fra gli estremi della creazione, cioè tra il non essere e l’essere, ci sia una distanza infinita. Tale, invece, è la convinzione di S. Tommaso (cfr. Somma Teologica I, q. 45, a. 5, ad 3), il quale fonda su essa l’affermazione che solo Dio può creare in senso rigoroso. Lo Scoto, invece, pensa che per misurare una distanza bisogna guardare al contenuto degli estremi: nel caso della creazione, l’estremo rappresentato dal non essere non ha alcun contenuto positivo; invece, l’estremo rappresentato dall’essere creato racchiude la perfezione indicata dalla sua natura. Perciò, la distanza tra il non essere di una cosa e il suo essere è determinata dall’essere della cosa stessa. Tra la creatura e Dio, invece, la distanza è infinita, perché uno degli estremi, Dio, è infinito e, perciò, non c’è distanza misurabile tra Lui e la creatura (cfr. Ord. IV, d. 1, p. 1, q. un., n. 6).
[115] Anche qui lo Scoto ha presente una dottrina di S. Tommaso, quella della necessaria composizione metafisica dell’ente finito. Per S Tommaso (cfr. Summa Theologica I, q. 7, a. 1, corpus; Contra gentes I, c. 43), tale composizione risulta dall’incontro d’un’essenza con l’essere. Per lo Scoto, invece, risulta, per così dire, dall’incontro dell’essere e da una privavione dell’essere (cfr. E. GILSON, Sur la composition fondamentale de l’être fini in AA. VV. De doctrina..., o. c., I, pp. 183 ss.). Essa risiede all’interno dell’ente stesso e costituisce il suo intrinseco grado di perfezione (cfr. Ord. I, d. 2, p. 1, q. 1-2, n. 142). Per comprendere la natura della perfezione e l’essenza del grado intrinseco di cui parla lo Scoto, bisogna cogliere la maniera scotista di concepire l’essere come tale. Questo, per sé, come appare all’intelletto, è infinito. La sua nozione non implica alcun limite, tranne quello del non essere. Ora, se si chiama entità ciò che fa che una cosa sia essere come si chiama umanità ciò che fa che un essere sia uomo, bisogna concludere che a limitare concretamente l’essere sarà solo una mancanza di un certo grado di entità. Si dice, allora, che l’essere manca d’una perfezione che, di natura sua, potrebbe e dovrebbe avere. Ecco, allora, la privazione di essere diventare un elemento di struttura e di composizione. Di fronte a un essere finito, non si può mai dire che la sua entità è pura e semplice entità o è attuato secondo tutta la sua perfezione possibile. è un essere, sì, ma qualificato dalla sua specifica privazione di entità. E poiché la privazione esclude la semplicità dell’essere come tale, essa costituisce per l’ente finito la sua intrinseca composizione. Questa composizione costituisce, sotto l’aspetto positivo, il modo intrinseco o l’intrinseco grado di perfezione d’ogni essere finito. La natura di essa si chiarisce attraverso il modo in cui lo Scoto giunge a determinarlo. Alcuni pensano, egli scrive, che una forma sia limitata dalla materia. Ma questa concezione non vale per ogni essere finito perché, per esempio, non si applica agli Angeli ( S. THOMAE, In II Sent. d. 3, q. 1, a.1, corpus; Quodl. II, q. 2, a. 1; De ente et essentia, c. 5) o alle Sostanze Separate, che sono affatto prive di materia. Insufficiente è anche dire che una forma è limitata dall’esistenza, come pensa S. Tommaso, perché, in linea di principio, l’esistenza è posteriore rispetto all’essenza. Se questa fosse infinita, non potrebbe diventare finita in un momento logicamente successivo. La ragione formale della limitazione va ricercata precisamente nel modo intrinseco che determina il grado di perfezione proporzionato all’essere finito.
[116] Il sofisma di cui parla è il paralogismo noto come « fallacia consequentis ». Esso consiste nel credere che il rapporto tra ragione e conseguenza sia convertibile. Così, « poiché a causa della pioggia la terra diventa umida, noi riteniamo altresì, quando la terra è bagnata, che sia piovuto. Ciò per altro non è necessario » (cfr. ARISTOTELE, Confutazioni sofistiche 5, 167b; ed. Colli, p. 657). Qui: se è vero che la materia limita la forma, non è necessariamente vero che la forma, priva la materia, sia illimitata. La forma, infatti, può essere limitata anche di per sé, come pensa lo Scoto.
[117] Cfr. ARISTOTELE, Phys. III, 5, 204b 5-15.
[118] Cfr. § 146, nota 110.
[119] Cfr. ARISTOTELE, Phys. VIII, 10, 266a 25-266b 26.
[120] Cfr. ARISTOTELE, Met. XII, 7, 1073a 1-12. Sulla contradditorietà d’una quantità attualmente infinita, vedi quanto abbiamo detto del numero infinito al § 50, nota 11.
[121] In questo paragrafo e in quello seguente si trovano gli elementi fondamentali dell’intricato problema riguardante l’infinità intensiva del Primo Movente. La potenza infinita attribuita da Aristotele al Primo Movente per spiegare l’eternità del movimento dei cieli rappresenta l’infinità intensiva dell’essere divino o l’infinità estensiva della sua durata? Nella prima ipotesi, essa concerne l’essere stesso del Primo Movente, connotandone la perfezione qualitativamente infinita; nella seconda ipotesi essa riguarda l’effetto della sua azione motrice, connotandone la perfezione qualitativamente finita insieme alla durata indefinita. Lo Scoto ritiene che Aristotele attribuisca al Primo Movente una potenza intensivamente infinita e non solo estensivamente illimitata (cfr. A. POPPI, Causalità e Infinità nella scuola padovana dal 1480 al 1513, Padova, 1966, pp. 47-129).
[122] Cfr. § 81.
[123] In effetti, la dimostrazione dell’immaterialità del Primo Movente precede quella della sua potenza infinita. Aristotele, dopo aver detto che « tre sono le sostanze, due fisiche ed una immobile », prosegue dimostrando la necessaria esistenza di quella immobile: « di questa vogliamo parlare ora, per mostrare che una sostanza eterna immobile esiste di necessità » (cfr. Met. XII, 6, 1071b; ed. Carlini, p. 402). E, come si sa, fonda la sua dimostrazione sulla necessità di giustificare il movimento, concepito come eterno. Quindi, riflettendo sulle caratteristiche che deve avere il Movente Immobile, rileva che esso deve essere attivo e senza materia: « Finché non si pone un principio attivo, il movimento non potrà mai esserci. Anzi, non basta neppure che sia attivo, qualora la sostanza sua sia, non l’atto, ma la potenza: ché, in tal caso, il movimento — potendo darsi che ciò che è in potenza, non sia — non sarebbe eterno. Deve, dunque, esserci un principio tale che la sostanza sia l’atto stesso. Di più, le sostanze come questa devono essere senza materia, perché (la materia è causa di corruzione), se pur altro c’è al mondo di eterno, esse devono essere eterne. E però atto, semplicemente » (cfr. Met. XII, 6, 1071b; ed. Carlini, p. 403). Solo dopo di ciò troviamo la prova della potenza infinita, fondata sulla potenza motrice (cfr. Met. XII, 7, 1073a; ed. Carlini, p. 412).
[124] Cfr. §§ 103 ss.
[125] Cfr. § 81.
[126] Cfr. §§ 103 ss.
[127] Cfr. § 85.
[128] Cfr. § 96.
[129] Sulla realtà della materia cfr. § 23, nota 17.
[130] Nonostante il sustrato della Fisica aristotelica che induceva a considerare i corpi celesti come di materia meno alterabile di quella che costituisce il corpo umano, lo Scoto rileva che il nostro corpo, pur essendo, in conseguenza della materia che gli è propria, più corruttibile del corpo celeste, è più nobile di questo grazie allo spirito che lo anima.
[131] Per la duplice serie di accidenti vedi § 87, nota 11.
[132] Nella misura in cui si può dire che il binomio « Filosofi-Teologi » equivale al binomio « Filosofia-Fede », i rapporti tra la filosofia e la fede, secondo lo Scoto, si possono così prospettare: tra le due c’è distinzione, ma non discontinuità.
In virtù della distinzione, bisogna riconoscere a ciascuna una certa autonomia: non è necessario essere credenti per comprendere le verità riguardanti la natura e, in buona parte, quelle riguardanti l’uomo e Dio. Ma è vero anche che la Filosofia, da sola, non s’è dimostrata capace di diagnosticare esattamente il destino dell’uomo e, anche quando sia riuscita ad intravederlo confusamente non fu in grado di offrire i mezzi adeguati per realizzarlo. Perciò, deve essere integrata e superata dall’apporto della teologia che si rivela, in tal modo, un sapere qualitativamente superiore e quantitativamente più vasto della semplice filosofia (cfr. E. BETTONI, Duns Scoto denuncia l’insufficienza dell’antropologia filosofica in AA. VV., Deus et Homo..., o. c., pp. 245-257; P. SCAPIN, Capisaldi d’un’antropologia scotista, Ivi, pp. 2969-291). In questo paragrafo, lo Scoto enuncia gli attributi divini razionalmente conoscibili, prima, e alcune perfezioni che solo al teologo sono accessibili, poi.
[133] Lo Scoto dimostra scarso interesse per la questione riguardante le idee divine. Il motivo va ricercato, forse, nell’eccessivo interesse che ad essa attribuivano diversi maestri del suo tempo, in particolare Enrico di Gand. Nell’ampia discussione che riserva all’argomento nel quadro dell’Ordinatio (cfr. I, d. 35, q. un., nn. 1-58; VI, pp. 243-270) recensisce l’opinione di S. Bonaventura e di Enrico di Gand, criticandole ambedue. Esprimendo, poi, un giudizio storico-critico sull’intricata questione, afferma che la descrizione delle idee, data da S. AGOSTINO (« idea est ratio aeterna in mente divina, secundum quam aliquid est formabile ut secundum propriam rationem eius »: cfr. De Diversis Quaest. 83, q. 46, n. 1; PL. 40, 29) deriva da Platone (cfr. Parmenide, c. 6, I, 630-1) e concorda con quanto egli dice in proposito, Ma delle altre interpretazioni del pensiero platonico, in particolare di quella aristotelica, scrive con fine senso critico: « Ipse (Plato) enim posuit ideas esse quidditates rerum: per se quidem existentes, et male, secundum Aristotelem (cfr. Met. I, 6, 987b 1-21; I, 9, 991a 20-991b 4), — secundum Augustinum in mente divina (cfr. De Diversis Quaestionibus 83, q. 46, n. 2; PL. 40, 30), et bene; unde aliquando loquitur) de mundo intelligibili (cfr. PLATONE, Timeo II, 204-6, 208-9) secundum eum (Augustinum) (cfr. Contra Academicos III, 17, n. 37; PL. 32, 954). Sicut ergo ponerentur ideae secundum illam impositionem Aristotelis quidditates rerum, ita ponuntur secundum Platonem ut quidditates habentes esse cognitum in intellectu divino » (cfr. Ord. I, d. 35, q. un., n. 41; VI, 262).
[134] Seconda allusione al trattato che avrebbe dovuto sintetizzare la teologia soprannaturale delle perfezioni divine. Cfr. 4 141, nota 104.
[135] Cfr. Isaia 44, 8; 45, 6. 14. 21.
[136] Cfr. § 122, nota 74.
[137] Cfr. § 72.
[138] Per quanto ‘implicitamente’, lo Scoto si richiama, anche qui, alla ragione che gli stessi Filosofi hanno addotto a favore del monoteismo. Cfr. $ 73. Aristotele, esplicitando il significato metafisico dell’intuizione omerica secondo cui « non è buono il comando di molti: unico sia il comando » (cfr. Iliade II, 204), afferma che l’universo fa capo a un unico Primo Principio (cfr. Met. XII, 10 1076a; ed. Carlini, p. 430).
[139] Cfr. Esodo 20, 3.
AGOSTINO (Sant’) : 12, 82, 103, 221.
ALBERTO MAGNO (Sant’) : 13.
ALGAZEL : 130.
ALLUNTIS F. : VII, 57, 76.
ANASSAGORA : 112.
ANASSIMANDRO : 65.
ANDREA A. : 10, 39.
ANSELMO D’AOSTA (Sant’) : 176, 177, 238, 242.
ARISTIPPO E. : 13.
ARISTOTELE : 9, 10, 11, 12, 13, 15, 16, 17, 27, 31, 33, 38, 50, 62, 69, 70, 71, 73, 82, 84, 86, 88, 89, 90, 92, 94, 98, 104, 110, 111, 112, 114, 121, 124, 126, 127, 128, 130, 131, 134, 139, 144, 147, 154, 155, 156, 158, 159, 170, 181, 185, 201, 202, 208, 224, 240, 241, 248, 249, 250, 254, 257, 261, 262, 263, 266, 279, 284.
AVERROÉ : 15, 16, 126, 127, 130, 185. AVICENNA : 15, 16, 27, 38, 63, 78, 89, 93, 94, 104, 126, 127, 128, 130, 134, 140, 158, 159, 185, 258.
AVICENNA (pseudo) : 12.
BACONTHORPE G. : 39.
BALIC C. : 7, 9, 10, 11.
BARTH T. : 23, 64.
BARTOLOMEO DA MESSINA : 13.
BELMOND S. : 64, 222.
BÉRUBÉ C. : VII, 57, 97, 103, 136, 244, 245.
BETTONI E. : 12, 15, 23, 29, 57, 136, 244, 275.
BOEZIO DI DACIA : 13, 14.
BOEZIO SEVERINO : 69.
BONAVENTURA (San) : 12, 13, 244, 278.
BORAK A. : 14, 19.
BOROWSKY W. : 32.
BOVIN : 64.
BREDA VAN H. L. : 57.
CACCIATORE G. : 97.
CALLEBAUT A. : 9.
CARLINI A. : 71, 74, 86, 98, 99,104, 111, 127,131, 148, 154, 155,158, 202, 257, 266, 267, 285.
CARTESIO : 244.
CHIROTTI E. : 95.
COLLI G. : 84, 209, 225, 261.
DANTE : 8, 158.
DAY S. : 223.
DE COUCERAULT R. : 64.
DE SAINT-MAURICE B. : 64.
DIOGENE LAERZIO : 69.
EFFLER R. : 58.
EGIDIO ROMANO : 14.
ELIA DUNS : 3, 7.
EMPEDOCLE : 112, 113.
ENRICO DI GAND : 14, 103, 278.
EUDOSSO : 158.
FACHLER F. : 64.
FILIPPO IL BELLO : 3, 8.
FINKENZELLER ,J. : 15.
FRANCESCO DE MEYRONNES : 39.
GALKOWSKY J. : 31.
GARRIGOU-LAGRANGE R. : 247.
GAVRAN I. : 31.
GERARDO DA CREMONA : 13.
GHISALBERTI A. : 32, 255.
GIACON C. : 226.
GIEBEN S. : 57.
GIGANTE M. : 69.
GILSON E. : 14, 15, 19, 23, 54, 64, 125, 136, 260.
GIOVANNI APOSTOLO (San) : 120.
GOFFREDO DI FONTAINES : 14.
GOICHON A : M. : 230, 253.
GONSALVO DI SPAGNA : 3.
GRAJEWSKY M. J. : 19.
GROSSATESTA R. : 13.
GUGLIELMO DI MOERBEKE : 13.
HOERES W. : 14.
HEGEL : 244.
KANT : 244.
KILWARDBY R. : 14.
KLUXEN W. : VII, 76, 77, 107.
KOCH J. : VII.
IAMARRONE L. : 27, 184, 210.
ISAIA : 281.
LEIBNIZ : 244.
LONGPRÉ E. : 9.
MADKOUR I. : 16.
MAGRINI A. : 15.
MARCHESI A. : 29.
MARIANI E. : 32.
MASTRIO : 64, 199.
MICHELE SCOTO : 13.
MIGLIORE P. : 136.
MIGNUCCI M. : 33.
MONDOLFO R. : 130, 240.
MOSCHETTI A. M. : 176, 243.
MÜLLER M. : VII, 55.
NINIANO (DI) DUNS : 3.
NOGARET : 8.
O’CONNOR E. : 15.
ODOARDI G. : 7.
OMERO : 50.
PARMENIDE : 50.
PELSTER F. : 9.
PETRUZELLIS N. : 32, 240.
PIETRO DI GIOVANNI OLIVI : 245.
PIETRO LOMBARDO : 3, 11.
PIETRO TOMMASO : 39.
PLATONE : 12, 50, 73, 278, 279.
PLATZECK E. W. : 26.
PLEBE A. : 158.
PLOTINO : 12.
POPPI A. : 265.
PORFIRIO : 9, 11, 115.
POZZI L. : 69.
PRENTICE R. : 23, 32, 41, 45, 58, 76, 136, 151, 159, 179, 210, 244.
PROCLO : 12.
RADA : 64.
RADONIC : 64.
ROCHE E. : VII.
SCAPIN P. : 17, 27, 29, 79, 89, 103, 184, 245, 275.
SCHAEFER O. : 57.
SHIRCEL C. : 22.
SIGIERI DI BRABANTE : 13, 14.
SIMPLICIO : 62.
SMEETS U. : 57.
SOLAGUREN : 26.
STELLA P. : 26, 95.
TEMPLER S. : 14.
TODISCO 0. : 58, 64, 66, 136.
TOMMASO (San) : 12, 13, 62, 92, 130, 137, 244, 258, 260, 261.
TOMMASO DI ERFURT : 10.
TONNA I. : 97.
TRAINA M. : 19, 22.
VAN STEENBERGHEN F. : 12.
VERRIEST S. : 131.
VEUTHEY L. : 222.
VIVÈS M. : 8, 9, 10.
WADDING L. : 8, 9, 10.
WOLTER A. B. : VII, 23, 67, 72, 141.
ZAVALLONI R. : 31.